Conflitto tra magistratura e politica

Il tasso di conflittualità tra politica e magistratura è molto alto. Soprattutto negli ultimi decenni. Eppure i cittadini e i giovani, in particolare, sembrano indifferenti alla questione. Probabilmente perchè le ragioni del problema sono poco conosciute. Chiarire i motivi del contrasto tra i due poteri è stato l’obiettivo della lezione tenuta all’istituto di formazione politica “Mons. Lanza” da Massimiliano Sgroi, avvocato e docente della scuola. La conversazione si è focalizzata inizialmente su alcune nozioni della nostra architettura costituzionale. Una delle quali riguarda il principio di separazione dei poteri, secondo cui ogni funzione dello Stato è attribuita a poteri diversi. Questa divisione, tuttavia, non è assoluta e la Costituzione ha previsto eccezioni e quindi interferenze tra i poteri disciplinate per legge. La magistratura – che costituisce uno dei tre poteri e svolge funzioni giurisdizionali – è un ordine autonomo ed indipendente dagli altri poteri. A salvaguardia di questa autonomia i padri costituenti hanno pensato un istituto specifico cioè il Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di un organo di autogoverno con funzioni “amministrative” come l’assunzione, il trasferimento o l’erogazione di sanzioni disciplinari nei confronti dei giudici. Il Costituente aveva immaginato un sistema di democrazia compiuta con un parlamento e un governo chiamati a concorrere all’attuazione della politica del Paese, e una magistratura deputata a dirimere i conflitti e garantire la legalità.

Questa architettura costituzionale – ha spiegato Sgroi – non ha sempre funzionato bene. Il conflitto tra magistratura e politica si è acuito negli ultimi anni ma è sempre stato latente. Nel nostro sistema di civil law (cioè di legge scritta, formale) il giudice dovrebbe limitarsi a interpretare la legge e ad applicarla. Quindi l’opera creatrice di diritto da parte della giurisprudenza è considerata patologica. La norma, infatti, la crea il parlamento, non il magistrato. Dunque, ogni volta che la magistratura ha tentato di appropriarsi di una funzione non sua – cioè quella legislativa – si è avvertita una forte frizione con il parlamento. La nostra storia repubblicana ha conosciuto episodi concreti che sono il sintomo del tentativo di espansione della magistratura. I casi di supplenza giudiziaria e di usurpazione del potere legislativo sono ormai ben noti. Le sentenze con cui la Corte costituzionale si è pronunciata in merito, ad esempio, alla procreazione medicalmente assistita, hanno un valore “suppletivo” cioè di creazione di diritto. In questo modo la magistratura ha compiuto scelte valoriali, propriamente politiche, travalicando gli argini a lei affidati dalla Costituzione. Inoltre, dagli anni ’90 si è organizzata con una accentuazione della valenza politica del suo operato, che non vuol dire solo politicizzazione dei giudici. Questa tendenza ad assumere un ruolo più forte è fisiologico nelle democrazie in crisi, dove ad un indebolimento della politica consegue un rafforzamento del potere giudiziario. Negli anni di Tangentopoli ad esempio – per effetto delle inchieste e con l’applicazione del diritto – la magistratura ha dato uno scossone all’ordinamento, rivoluzionando il panorama istituzionale. Tuttavia l’azione penale usata nei confronti della classe politica crea paralisi nell’attività di governo e determina sfiducia nelle istituzioni. Che, d’altra parte, sono considerate vittime della magistratura, guardata con altrettanto sospetto. L’effetto di questa situazione è che il parlamento accusa il potere giudiziario di spogliarlo delle sue prerogative; e la magistratura, a sua volta, punta l’indice contro il parlamento ritenuto incapace di esercitare le sue funzioni e succube del governo. E poi il traghettamento di alcuni magistrati verso il parlamento sembra confermare l’ipotesi che quelle azioni giudiziarie eclatanti fossero finalizzate al loro ingresso in politica. Inoltre, si assiste sempre più ad un’azione annullata del CSM che rischia di diventare un organo non credibile perché non sa darsi delle regole e non le sa applicare. Ciò dà adito alle strumentalizzazioni da parte della politica che accusa lo strapotere della magistratura. Il CSM, infatti, non sembra in grado di comminare sanzioni e censurare comportamenti scorretti dei singoli magistrati. Si afferma che se un giudice sbaglia, in sostanza resta impunito. Tuttavia, se il CSM non funziona, in parte la responsabilità è anche del parlamento. Infatti, 1/3 dei suoi membri – detti “laici”- è nominato dal parlamento, a garanzia della serietà di questo organismo.

Siamo in un vero e proprio corto circuito istituzionale – ha osservato Sgroi – che rischia di fare implodere il sistema.  Assistiamo a un conflitto tra poteri e a una degenerazione all’interno di essi, a un impoverimento culturale e a una decadenza che non risparmia nemmeno la magistratura. Se, da una parte, la magistratura è vittima di attacchi censurabili provenienti da altre istituzioni, d’altra parte va segnalato il suo tentativo di sconfinamento, di superamento degli argini stabiliti dalla costituzione. Ecco perché si sente l’esigenza di una riforma del pianeta giustizia, che deve essere efficiente, giusta e dare risposte certe alle problematiche dei cittadini. Invece, la percezione comune è di avere un’amministrazione della giustizia lenta e farraginosa: i processi si protraggono per anni con il beneplacito dei giudici che rinviano le udienze all’infinito. È indubbio che una diversa organizzazione del servizio giustizia accelererebbe di molto i processi; e che magistrati consapevoli del loro ruolo, attenti a svolgere le loro funzioni senza travalicare i loro poteri, diventano credibili e contribuiscono a portare equilibrio nel Paese. In altre parole, non si può ignorare lo sconfinamento della magistratura verso ruoli che non le appartengono, ma non si deve nemmeno sottacere la delegittimazione del potere giudiziario attuata dal potere politico. Si dice, infatti, che la magistratura non ha una legittimazione democratica (essendo composta da tecnici non eletti ma reclutati con un sistema concorsuale) e perciò non è deputata a compiere scelte di fondo, ad attuare le linee politiche generali. Ma ci si dimentica che si tratta di un potere dalla legittimazione istituzionale e costituzionale, che deve garantire la legalità. E che costituisce un limite ad una legittimazione democratica che può anche tradursi in comportamenti lesivi dell’ordine costituzionale. Perché non sempre le scelte della maggioranza sono le migliori.

 

 

Vittoria Modafferi