Diritto dell’immigrazione e principio di legalità

In collaborazione con l’Università Mediterranea e il Ceric (Centro di ricerca sulla cittadinanza), il 20 novembre 2018, per il primo incontro della “Cattedra del dialogo”, il prof. Fulvio Cortese, Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Trento, ha relazionato su un argomento attuale e dibattuto da diversi decenni: il “diritto dell’immigrazione”.

Il docente ha esposto una serie di dati statistici che descrivono la portata del fenomeno ma, al tempo stesso, smentiscono alcune errate percezioni: nei primi 17 anni del 2000 il numero di persone che hanno lasciato il proprio Paese per cambiare vita è aumentato del 50% (circa 258 milioni di persone, di cui la gran parte vive tra l’Asia e l’Europa).

Ma – tra costoro – la categoria degli stranieri “richiedenti asilo” è solo una parte minore (circa 26 milioni al mondo, la maggior parte dei quali non proviene dall’Africa).

Quindi non sembrerebbe si possa parlare di “emergenza”. Inoltre i principali Paesi ospitanti risultano essere: Turchia, Giordania, Libano, Palestina, Pakistan, mentre la maggior parte dei rifugiati proviene da Messico, Russia, Cina, Bangladesh, Siria.

La rotta migratoria più numerosa parte dal Sud-America. Dunque nel continente europeo non sono così tanti i soggetti che richiedono asilo; al contrario l’Europa è il secondo continente per “emigrazione” e addirittura il numero di arrivi non compensa il numero di partenze.

Mentre gli Stati europei con più immigrati sono Francia, Germania e Inghilterra, i Paesi con la maggiore “variabilità di popolazione” sono la Spagna, l’Irlanda e l’Italia. La difficoltà non attiene quindi il numero ma la gestione di questo fattore di variabilità.

Purtroppo, ai diritti fondamentali formalmente riconosciuti, compreso il diritto d’asilo (art. 10 Cost. it.), si contrappone una strutturale chiusura dei confini. L’Italia, che giustamente richiede un aiuto europeo, deve però dimostrare di saperlo gestire e l’attuale uso non virtuoso della spesa pubblica certo non l’aiuta.

Ma perché le comunità più stabili e gli Stati con istituzioni liberal-democratiche stanno diventando sempre meno accoglienti? Per varie ragioni, non ultima il fatto che la legislazione ordinaria in materia di immigrazione in Italia continua ad essere approvata in un’ottica di “eccezionalità” del fenomeno.

Eppure il nostro è considerato solo un Paese di transito, poiché la gran parte degli stranieri che vi sbarcano non hanno l’Italia come obiettivo del loro viaggio. Inoltre, la normativa europea impedisce allo straniero di lasciare il Paese d’ingresso prima della conclusione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale, procedure fin troppo lunghe in Italia.

Il sistema dell’accoglienza è gestito dalla pubblica amministrazione, secondo un modello organizzativo improntato all’efficienza che negli ultimi anni ha funzionato meglio. Quello che è mancato è stato un intervento responsabile e ordinario da parte del legislatore.

Residuano problemi rispetto all’art. 13 della Costituzione (inviolabilità della libertà personale) all’interno degli hotspot, o centri di “prima accoglienza”.

Così pure, i progetti dell’effettiva integrazione socio-economica del richiedente asilo di cui si occupa la “seconda accoglienza” (SPRAR), devono essere approvati dal Ministero dell’Interno (anche se, per il principio della sussidiarietà verticale, le politiche sociali sono competenza di tutti i Comuni italiani, e ciò anche a garanzia di una reazione più favorevole da parte delle comunità locali nei confronti degli stranieri).

Il fenomeno migratorio in Italia ha posto in rilievo sia le carenze strutturali, che i limiti già preesistenti della nostra amministrazione, in particolare l’incapacità di applicare il principio di buon andamento e i limiti di una poco efficiente allocazione delle risorse. Infine il docente ha ricordato le spese sostenute dall’Italia per la “gestione del confine”: tra il 2016 e il 2017 quasi 4 miliardi di euro.

Stefania Giordano