“Giustizia del debole, minore giustizia?”

Donne, bambini, poveri, diversamente abili, anziani. Categorie “deboli”, alle quali sia il magistero della Chiesa, che il diritto civile rivolgono una particolare attenzione. Ma la comunità civile riesce, nei fatti, a garantire loro la giusta tutela? O per i deboli vige una minore giustizia?

A queste considerazioni si è cercato di dare risposta, durante un incontro dal titolo “Giustizia del debole, minore giustizia?”, svoltosi all’istituto di formazione politica “Monsignor Lanza”. Franca Panuccio – avvocato e docente di diritto privato comparato presso l’Università di Messina – ha esaminato alcuni passaggi della dottrina sociale della Chiesa in cui si rintracciano i profili delle categorie deboli. Per fare, poi, un raffronto con i documenti del diritto civile.

«Nelle costituzioni pastorali e nei decreti del magistero – ha spiegato la docente – non si rintraccia la parola debole. Sono presenti, invece, termini come povero o uomo, la cui promozione è affidata alla società. Dalla qualità del vissuto sociale, infatti, e dalle relazioni di giustizia e di amore, dipendono la tutela e la promozione delle persone, per le quali ogni società è costituita.  Nella società, inoltre, sono in gioco la dignità, la pace e i diritti della persona, tutti beni che la comunità sociale deve perseguire e garantire. In questo quadro, compito della dottrina sociale della Chiesa è l’annuncio del Vangelo, insieme alla denuncia del peccato, tra cui quelli di ingiustizia e violenza. Il ruolo di denuncia si è tanto più intensificato negli ultimi anni, quanto maggiore è l’estensione degli squilibri e dei soprusi. Tuttavia, partendo dalla dignità della persona e dalla difesa dei diritti violati e sconosciuti, la Chiesa affida il compito di riequilibro delle ingiustizie alla collettività. La Gaudium et spes, in tema di promozione del bene comune, afferma la necessità di rendere “accessibile all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno per condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, […] il diritto di fondare una famiglia, il diritto all’educazione, al rispetto”.

Come dire che non c’è vera giustizia sociale e promozione del bene comune se non si libera l’uomo dai bisogni, che coincidono con una serie di diritti. Inoltre, c’è un forte richiamo alla responsabilità di ognuno: “ciascuno consideri l’altro come un altro se stesso, tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per viverla degnamente. Corre l’obbligo di diventare prossimo di ogni uomo e di rendere servizio con i fatti a colui che si fa passante”.

Fa seguito un elenco di persone considerate deboli, tra cui il lavoratore straniero, l’anziano abbandonato, il fanciullo affamato. Anche l’ordinamento civile si occupa delle categorie dei deboli, che sono oggetto di provvedimento normativo, con una ricaduta di carattere sociale e politico. Termini come debole, solidarietà, centro di affetti, serenità, residenza emotiva, erano inesistenti fino a un decennio fa. Ora appaiono in molti documenti e leggi, e oltre a testimoniare il processo culturale di cambiamento che è intervenuto, sono un tentativo di tradurre in concreto il concetto di solidarietà sociale. Le categorie deboli rintracciate dal diritto non sono poi così diverse da quelle della dottrina sociale. Bambini, anziani, soggetti con handicap o diverse abilità, infermi di mente, senza tetto, vittime di calamità. Sono persone “diverse” che in quanto tali hanno bisogno della massima attenzione da parte del diritto. Anche se a loro riguardo si è avviata una certa trasformazione nel corso degli anni. Piuttosto che di soggetto passivo, bisognoso di protezione, si parla sempre più di strumenti, istituti, e modalità  che aiutano l’individuo a tornare ad essere soggetto».

La Panuccio ha poi elencato una serie di tappe fondamentali, dal 1948 ad oggi, che hanno accompagnato l’evoluzione del diritto nella tutela  di alcuni soggetti. Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del ’48, passando per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 55, la docente si è poi soffermata sulla Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000, che ha individuato in modo puntuale le categorie deboli. «In materia di diversamente abili e di malati – ha proseguito Franca Panuccio -, l’Europa dal 2000 in poi, ha indicato un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni del lavoro. Con direttiva 2068, recepita in Italia nel 2003, il diritto al lavoro è stato elevato a rango di diritto fondamentale dell’individuo, in quanto strumento di emancipazione per il recupero di una nuova dignità. Il modello sociale introdotto nel nostro Paese, parte dall’evoluzione normativa introdotta dalla legge sulle cooperative sociali. La condizione di svantaggio è considerata un rapporto tra limitazioni funzionali e sociali che le persone possono vivere, e le risposte di inclusione o esclusione sociale che vengono offerte ai loro bisogni. Non si parla più di portatori di handicap, ma di ricevitori di handicap. E’ una lettura diversa, perché queste persone sono considerate una risorsa per il mercato del lavoro. Nel libro bianco di Biagi, in particolare, si afferma che le politiche di occupabilità e adattabilità, devono essere ripensate e rilette con riferimento al lavoro di gruppi discriminati, garantendo la partecipazione di tutti i lavoratori. Appare così la terminologia di “inclusione sociale”, che non è solo una enunciazione ma è tradotta con una serie di azioni positive e di lotta contro l’handicap e la discriminazione».

I concetti di superamento delle discriminazioni e di integrazione, recepiti dalla legge civile, «trovano una traduzione ben più ampia nella dottrina sociale della Chiesa – ha concluso la Panuccio -. Al n° 391 del nuovo compendio si legge che “la giustizia richiede che ognuno possa godere dei propri beni e dei diritti, ed è la misura minima dell’amore”. E ancora si afferma che “la persona umana […] non trova piena realizzazione completa di sé fin quando non  supera la logica del bisogno, per proiettarsi in quella del dono e della gratuità che più pienamente rispondono alla sua essenza e alla sua vocazione comunitaria”. E’ davvero una lettura nuova e interessante che interpella tutti in prima persona, e ci invita a superare la logica dell’egoismo e della chiusura all’altro. E ci fa riflettere sul rapporto tra la giustizia – come misura minima dell’amore – e il dono e la gratuità come tentativo di riequilibrio e superamento delle ingiustizie sociali».

 

Vittoria Modafferi