Povertà e centri di ascolto a Reggio, Breve presentazione

 

Iniziamo con qualche dato: l’Istat (Report 2017, 13 luglio 2017) riporta che nel 2016 le famiglie residenti in Italia in condizione di povertà assoluta siano 1 milione e 619mila, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui. Rispetto al 2015 si rileva una sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui. Anche la povertà relativa risulta stabile rispetto al 2015. Nel 2016 riguarda il 10,6% delle famiglie residenti (10,4% nel 2015), per un totale di 2 milioni 734mila famiglie, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti (13,7% l’anno precedente).

La povertà relativa colpisce di più le famiglie giovani: raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under 35, mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra 64enne. L’incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per gli operai e assimilati (18,7%) e per le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (31,0%). Il Mezzogiorno resta l’area territoriale più esposta al rischio di povertà o esclusione sociale (46,9%). Il rischio è minore, sebbene in aumento, nel Nord-ovest (21,0%) e nel Nord-est (17,1%). Nel Centro un quarto della popolazione (25,1%) permane in tale condizione.

Per tracciare un quadro relativo alla nostra città (in particolare al “territorio” della nostra diocesi) si utilizzeranno i dati ottenuti con il sistema di Ospoweb dei Centri d’Ascolto. Con il Libro bianco ci siamo concentrati non sulle cause della povertà (la corruzione, che, come spesso evidenzia papa Francesco, «la pagano i poveri»; la crisi economica, il neoliberismo imperante; etc.), ma sui bisogni del soggetto beneficiario di assistenza: i Centri d’ascolto, che sono le «antenne sul territorio» (Rapporto Caritas 2017, Futuro anteriore), provano a “rimuovere l’ostacolo” dal basso.

Tra i molti dati raccolti, vorrei sottolinearne in particolare uno: l’elevato numero di giovani e di adulti in età lavorativa (tra i 25 e i 64 anni) che si rivolgono ai Centri d’Ascolto. L’aumento dei giovani è un dato allarmante, perché essere vulnerabili proprio nel periodo della vita in cui si dovrebbe costruire concretamente il futuro, contribuendo così a progredire al pieno sviluppo personale e, insieme, al perseguimento collettivo del bene comune, vuol dire di fatto precarizzare l’esistenza.

Sempre secondo l’Istat, a settembre 2017 il tasso di disoccupazione risulta pari all’11,1%. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) a settembre risale al 35,7%, con un aumento di 0,6 punti percentuali su base mensile. A settembre la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni cresce dello 0,2% (+25 mila) interrompendo l’andamento tendenzialmente in calo registrato nei mesi precedenti. L’aumento è determinato dagli uomini e dai 15-34 anni, a fronte di una sostanziale stabilità tra le donne e di un calo tra gli over 35. Il tasso di inattività sale al 34,4% (+0,1 punti) (sul punto, cfr. M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, Roma-Bari, 2017).

Non dimentichiamo, inoltre, che la povertà, l’angoscia che porta con sé, è il movente principale per la formazione di populismi e addirittura di regimi autoritari (secondo la lezione di Franz Neumann) e che «una società psicotica è una società impolitica» (M. Magatti, Cambio di paradigma, Feltrinelli, Milano, 2017). Una società «psicotica» è una società che «non riesce a fare i conti con ciò che non va, con i propri limiti e le proprie contraddizioni. E per questo rinuncia a cercare soluzioni praticabili» (ibidem).

Il Rapporto della Social Impact Investment Task Force, per il periodo compreso tra il 2014-2020, ha stimato in 150 miliardi di euro il gap tra bisogni sociali e spesa pubblica. Secondo Fondazione Solidalitas, nel caso italiano il mercato della finanza sociale potrebbe raggiungere, entro il 2020, i 250miliardi di euro.

Ma che cos’è la povertà? Vorrei tentare una definizione in chiave giuridico-costituzionale e proverò a sostenere che tale nozione si può congiungere con l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa. Per farlo, propongo di partire dall’art. 3, II co., della nostra Costituzione (uguaglianza sostanziale) e, al contempo, di rileggerlo insieme alla storia di Caino e Abele. Infatti, a ben vedere, la domanda che si impone pressantemente è quella di Caino: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen., 4,9).

Se leggiamo il messaggio di Papa Francesco per la giornata mondiale dei Poveri e poi l’omelia del 19 novembre scorso, la nostra attenzione si posa sull’indifferenza, che il Papa, con forza, ha additato come il peccato di omissione per eccellenza nei confronti dei poveri:

 

L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: “Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società”. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene.

 

La lotta alla povertà trova una forte motivazione nell’opzione (o amore preferenziale) della Chiesa per i poveri. In tutto il suo insegnamento sociale la Chiesa non si stanca di ribadire anche altri suoi fondamentali principi: primo fra tutti, quello della destinazione universale dei beni. Con la costante riaffermazione del principio della solidarietà, la dottrina sociale sprona a passare all’azione per promuovere «il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 38). Il principio della solidarietà, anche nella lotta alla povertà, deve essere sempre opportunamente affiancato da quello della sussidiarietà, grazie al quale è possibile stimolare lo spirito d’iniziativa, base fondamentale di ogni sviluppo socio-economico delle aree più colpite dalla crisi e degli stessi soggetti beneficiari delle misure di welfare: ai poveri si deve guardare «non come ad un problema, ma come a coloro che possono diventare soggetti e protagonisti di un futuro nuovo e più umano per tutto il mondo» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000).

La povertà è sia economica che povertà di relazioni (sociali). Nell’era dello scambio finanziario-consumerista (Magatti, cit.), in cui va ricercata l’origine delle diseguaglianze, è stato il consumo a determinare le dinamiche del riconoscimento sociale: “Consumo, dunque sono” (Z. Bauman).

La pratica della carità non si riduce, perciò, all’elemosina, ma implica l’attenzione alla dimensione sociale e politica che la lotta alla povertà porta inevitabilmente con sé.

Sul rapporto tra carità e giustizia ritorna costantemente l’insegnamento della Chiesa: «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia» (San Gregorio Magno, Regula pastoralis, 3). I Padri Conciliari raccomandano fortemente che si compia tale dovere «perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Concilio Vaticano II, Decr. Apostolicam actuositatem).

Sembra, allora, necessario soffermarsi sul rapporto che sussiste tra povertà e giustizia sociale.

Le misure di welfare (di lotta alla povertà) – qualunque esse siano (una per tutte: il recente REI) – passano necessariamente attraverso (almeno) due fasi, così schematizzabili:

Raccogliere + Redistribuire

La raccolta implica una riflessione sul sistema di tassazione (l’unica cosa certa è che deve essere informato al criterio della progressività, affinché risulti costituzionalmente conforme). Soffermiamoci, invece, sulla seconda fase: la redistribuzione.

Qui si innesta con più forza il giudizio sulla giustizia del welfare. Quale criterio scegliamo per redistribuire? La redistribuzione ineguale ha portato all’attuale “modello a clessidra” della società, con la scomparsa della classe media, l’aumento della ricchezza per l’élite già ricca (l’1% della popolazione mondiale, che possiede la ricchezza pari a quella del restante 99%) e la crescita contestuale della povertà nel resto della popolazione.

Molti sono i modelli della giustizia, tradottisi in altrettanti strumenti di politica economica, tra cui quello: egualitarista (diamo a chi ha più bisogno); utilitarista (diamo a chi può usare il bene e ne può tratte utilità); liberal-pratica (diamo il bene a chi dimostra di saper fare e di meritare quanto possiede).

A ben vedere, questi tre criteri sono incompleti e la sfida risiede oggi nel formulare una diversa teoria della giustizia, che cerchi di non trascurare gli interessi in gioco e che non segua la logica del “tutto o niente” e non fomenti la “lotta di classe”. La scelta deve essere effettuata attraverso più valutazioni, in modo dialogico (cfr. A. Sen, L’idea di giustizia, Milano, 2010) e relazionale. Papa Francesco ama ripetere che tra due persone che si incontrano non vince l’una o l’altra: vince l’incontro, ossia quella sintesi che necessariamente emerge se il dialogo è sincero. L’arte dell’incontrarsi invita a pensare in modo più ricco la stessa verità, fino a parlare di «verità dialogica». In un colloquio con Eugenio Scalfari, Papa Francesco afferma: «Per cominciare io non parlerei di “verità assoluta”, nel senso che è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. […] La verità è relazione. Tanto è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e l’esprime a partire da sé, dalla sua storia, dalla situazione in cui vive».

Aggiungiamo, allora, altre tre fasi per provare ad articolare meglio il modello di welfare (secondo la c.d. logica generativa):

Raccogliere; Redistribuire + Rigenerare; Rendere; Responsabilizzare

Vorrei, inoltre, proporre un’ultima considerazione, che contribuisce a mostrare come la povertà sia un fenomeno effettivamente complesso e sfaccettato. Essa, infatti – come ci ricorda da ultimo Papa Francesco – può assurgere a valore morale quando si manifesta come umile disponibilità e apertura verso Dio, fiducia in Lui. Questi atteggiamenti rendono l’uomo capace di riconoscere la relatività dei beni economici e di trattarli come doni divini da amministrare e da condividere, perché la proprietà originaria di tutti i beni appartiene a Dio e non all’uomo.

Papa Francesco (nel Messaggio per la I Giornata mondiale dei poveri) ci invita a vedere il valore della povertà, considerata strumento di misura e sobrietà:

Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. È la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. La povertà, così intesa, è il metro che permette di valutare l’uso corretto dei beni materiali, e anche di vivere in modo non egoistico e possessivo i legami e gli affetti.

La lotta alla povertà, allora, determina la messa a punto di molteplici strumenti: in primis una rivoluzione culturale (cfr. V. Paglia, Il crollo del Noi, Laterza, Roma-Bari, 2017) che ci aiuti a prendere coscienza di ciò che siamo, nel nostro essere relazionale, e a prenderci cura l’uno dell’altro; e poi un impegno politico e sociale, per trasformare in azione concreta la ricostruzione dei legami sociali che abbiamo ottenuto con il passaggio dall’Io al Noi. In sintesi, possiamo dire che la lotta alla povertà (a ogni forma di povertà) implica una rivoluzione della carità (che, in modo circolare, si realizza solo mediante il ricorso alla povertà stessa, intesa questa volta come valore morale). Siamo pronti?

Dott.ssa Simona Polimeni