Cittadinanza e Ius soli

Il Prof. Alessio Rauti, docente di Diritto pubblico e Direttore del CERIC (Centro di Ricerche sulla Cittadinanza) dell’Università Mediterranea, ha tenuto una lezione presso l’ISFPS Mons. A. Lanza sul tema delle leggi sulla cittadinanza.

Il progetto di legge c.d. sullo ius soli approvato dalla Camera alla fine del 2015, purtroppo non è stato poi votato al Senato prima della conclusione della legislatura. Pertanto è rimasta in vigore la l. n. 91/1992.

Dal punto di vista formale la cittadinanza è intesa come un doppio legame, verticale (tra cittadino e Stato) e orizzontale (tra componenti del corpo politico). Ogni Stato può scegliere i criteri di acquisizione che preferisce, con il solo limite stabilito dal diritto internazionale di evitare casi di apolidia, e la scelta può dipendere da diverse ragioni: politiche, demografiche, economiche… Tali criteri possono inoltre cambiare all’interno di uno stesso Stato: esemplare il caso della Bolivia che, fino al 2009, prevedeva il sistema dello ius sanguinis “su richiesta” (se un figlio di genitori boliviani nasceva all’estero, costoro potevano richiedere che divenisse cittadino boliviano), ma poiché molti emigrati non lo richiedevano (e i figli nati apolidi divenivano cittadini dello Stato estero) è stato poi introdotto lo ius sanguinis “automatico”.

Nello Stato di Malta la cittadinanza può essere addirittura ottenuta dietro pagamento (c.d. cittadinanza “mercatoria”), e ciò svuota il concetto stesso del suo valore identitario. Negli Stati Uniti, per ragioni storiche (XIV emendamento approvato dopo la guerra di secessione a garanzia dei diritti degli schiavi), vige lo ius soli “puro” (condizione unica è la nascita nel territorio dello Stato). In Inghilterra, Germania e Francia vige uno ius soli “temperato”: almeno uno dei genitori del minore straniero deve aver risieduto legalmente nel territorio per un numero di anni prestabilito o avere un permesso di lungo soggiorno. In questo caso si tiene conto dell’avvenuta integrazione del nucleo familiare.

Nel 1948, la Costituzione italiana introdusse il divieto di privazione della cittadinanza per motivi politici (art. 22). A differenza della precedente legge del 1912 che teneva conto della fase di emigrazione dal Paese (confermava il criterio dello ius sanguinis e prevedeva un periodo di residenza di almeno 5 anni), la legge attualmente in vigore sembrò già inadeguata al momento della sua promulgazione, poiché l’Italia era già un Paese di immigrazione. Essa stabilisce tra l’altro che la cittadinanza italiana può essere concessa allo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio della Repubblica o allo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente e senza interruzioni fino alla maggiore età e la richieda entro un anno da quella data. Se il minore nato in Italia non può dimostrare la sua residenza continuativa e legale (cioè non clandestina) non ottiene dunque la cittadinanza italiana. Al fine di salvaguardare il diritto alla salute, esiste tuttavia un’anagrafe temporanea per gli stranieri irregolari per l’accesso alle cure urgenti ed essenziali.

L’ultimo progetto di legge – complesso e qui non riassumibile – avrebbe introdotto diverse nuove modalità di acquisto: in particolare, fra l’altro, uno ius soli temperato sul modello inglese e uno ius culturae che prevedeva l’obbligo, per lo straniero nato in Italia o entrato nel Paese entro i 12 anni, di frequentare regolarmente uno o più cicli di istruzione per almeno 5 anni. L’istanza di “apertura” è nata perché in Italia ci sono più di un milione di minori stranieri di cui oltre settecentomila nati nel nostro Paese, che ormai frequentano le scuole.

Come ha ricordato il Prof. Rauti, in ogni caso va fatta una scelta di fondo: considerare l’idea di cittadinanza come tappa “iniziale” di un processo di integrazione o come momento “finale” di un’integrazione già avvenuta. Ovviamente, a seconda della scelta fatta, cambia tutto.

Stefania Giordano