Di lui Aldo Moro disse: “tu non lascerai traccia”. La profezia non si avverò. Tanto è vero che ha rappresentato una stagione della nostra vita repubblicana. Ed è stato l’arbitro di molte vicende politiche. Il suo nome è già presente sui libri di storia. Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte alla guida del governo, è il protagonista del film “Il divo”, una pellicola di Paolo Sorrentino, proiettata di recente all’istituto di formazione politica “Monsignor Lanza”.
Il dibattito che ne è seguito, guidato da Massimiliano Sgroi – avvocato e docente dell’istituto – ha preso spunto dalle vicende narrate nel film, per approdare a una serie di considerazioni. Innanzitutto, l’ambientazione si colloca negli anni ’90, «quando il ciclone Tangentopoli dà un forte scossone alla vita politica del Paese. La stessa democrazia cristiana si sgretola, ed è forte l’esigenza di trovare un nuovo sbocco rappresentativo. Invece non si è più ricostituito un partito che raccogliesse i consensi del mondo cattolico, e si approdò al concetto che l’identità cristiana è trasversale agli orientamenti politici, e un cattolico può dare il suo contributo nei diversi schieramenti. Quando in quegli anni sorsero le scuole di formazione politica come la nostra, si pensò che la Chiesa stesse lavorando per creare la classe politica da collocare nel Paese. Ma lo scopo di questi istituti è ben altro. Certamente si spera che chi frequenta i corsi abbia poi la volontà di spendersi e impegnarsi per gli altri. Ma qui si insegna soprattutto la politica come servizio e si vuole sensibilizzare la comunità ai diritti della cittadinanza. Ognuno, infatti, ha la possibilità di interagire col potere, e di condizionarlo usando gli strumenti di trasparenza amministrativa e di partecipazione».
Tornando al film, e al clima politico degli anni 90, Sgroi ha ricordato che era «un periodo di morti eccellenti. Il regista, facendo scorrere le immagini di quegli eventi, ha voluto subito presentare gli enigmi e i paradigmi di quegli anni. Dietro ogni morte c’è un mistero, e dietro la vita di Andreotti sembra profilarsi la chiave che risolve l’enigma. Ma il film non dà risposta agli interrogativi suscitati. Tuttavia, l’immagine che ne viene fuori è quella di un Paese sconvolto dall’emersione di un fenomeno ben noto. E cioè la commistione dei rapporti tra istituzioni e poteri occulti. I poteri legittimati dal basso, come il parlamento ma anche il governo, intrattenevano delle relazioni con i poteri occulti e illegittimi. Quando il potere giudiziario incominciò a sentirsi ristretto nel sistema di pesi e contrappesi – ovvero di bilanciamento tra poteri – prese il sopravvento e diede inizio a un’epoca in cui un potere cerca di condizionarne un altro, al di là di ogni limite costituzionale. Ancora oggi si assiste a forme gravi di intromissione e condizionamento, e a una incomunicabilità tra potere esecutivo e giudiziario.
Un altro aspetto ben evidente nel film è la concezione della politica intesa come mezzo di scambio, e il continuo rincorrere il consenso attraverso l’elargizione di favori. Da qui, emerge una concezione populista e piuttosto negativa della politica, considerata una “cosa sporca”. In realtà, la politica è una delle dimensioni più nobili dell’essere umano, è connaturata al suo essere. L’uomo è un animale sociale, non è vocato alla solitudine, e nella società deve trovare una mediazione tra interessi diversi. Anche il potere non è un male in sé. Non racchiude un’accezione negativa, anzi è una facoltà, una possibilità. Il problema è vedere come lo si struttura. Ecco perché ogni potere deve essere ben delineato e controbilanciato. A volte, invece, il potere è snaturato, diventa incontrollato e incontrollabile. Il film, vuole proprio farci riflettere su questo punto. E lo si nota nella ricerca spasmodica del personaggio di arrivare all’elezione al Quirinale. Per un uomo che aveva già ricoperto le più alte cariche istituzionali, quel tentativo rappresenta la volontà di raggiungere ogni forma di potere, anche quella che dà solamente prestigio. C’è una sorta di delirio di onnipotenza, una concezione del potere fine a se stesso».
Sulla ricerca del consenso attraverso lo scambio, Sgroi ha affermato che «comprare il consenso fa perdere autorevolezza. Quest’ultima è infatti legata a un consenso liberamente concesso. Eppure, tutti sappiamo che il consenso può essere manipolato e diventare così assenso acritico. Oggi il vero potere lo possiede chi governa i flussi comunicativi, perché può attirare consenso attraverso la manipolazione dell’informazione». E l’operazione potrebbe essere piuttosto agevole, se – come afferma Sgroi «stupidità e ignoranza contrassegnano la nostra società. Nessuno vuole più riflettere su un problema, che anzi, quando si presenta, deve essere rimosso. La nostra mente è bombardata solo da un certo target comunicativo, che lascia poco spazio alla critica o alla riflessione. E chi non è in grado di ragionare può facilmente farsi condizionare. Quando ci viene chiesto di esercitare un nostro diritto, se non ne siamo consapevoli, corriamo il rischio che l’esercizio sia annacquato e non dia la portata delle conseguenze, soprattutto in politica».
Vittoria Modafferi