Un uomo dalla mano paralizzata sedeva nella sinagoga. E nessuno sembrava accorgersi di lui. Gesù lo vide, lo chiamò, lo invitò ad andare al centro, gli ordinò di stendere la mano che fu subito guarita. Molte volte abbiamo letto questo brano del Vangelo di Marco (3, 1-6), abbiamo ascoltato diverse interpretazioni, ma forse mai abbiamo pensato ad un possibile parallelismo tra questa situazione e la condizione delle minoranze politiche.
Quali similitudini si possono individuare tra un uomo emarginato dalla comunità e le minoranze considerate nelle loro dinamiche relazionali?
Lo ha spiegato in modo efficace ed originale Simona Polimeni – dottoranda in giurisprudenza ed economia all’Università Mediterranea – durante un incontro all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.
Le minoranze – ha inizialmente sottolineato la Polimeni – sono intese o secondo un’accezione etnica o politica. Nel primo significato rientrano sia le minoranze volontarie – gruppi etnicamente connotati, che si sentono diversi per lingua, etnia, religione e rivendicano il riconoscimento della loro diversità – sia le minoranze discriminate, gruppi trattati in modo deteriore. Esse non reclamano le loro peculiarità e anzi desiderano essere trattate in modo uguale alla maggioranza. In genere, le minoranze etniche nascono dalla scissione o dall’assembramento di porzioni di territorio ed è solitamente a questa tipologia di gruppi che volge la sua attenzione la dottrina sociale della Chiesa. In tutti i documenti del magistero si accenna alla condizione delle minoranze etniche in quanto discriminate. Giovanni Paolo II, nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu nel ’95 ha parlato della necessità di rispettare i diritti delle minoranze. I cui membri sono uguali in dignità agli altri uomini.
La dott.ssa Polimeni, entrando nel vivo del discorso sulle minoranze politiche, ha ricordato che nel corso della storia, inizialmente, all’interno di un’assemblea il principio adottato per le votazioni non era quello della maggioranza bensì dell’unanimità. Anche nei Concili e nel seno delle comunità ecclesiali vigeva questa regola. Perché si procedeva così? Era avvenuto uno spostamento di piani: si pensava che l’elettore non dovesse esprimere la sua volontà, ma piuttosto che la volontà umana fosse il risvolto di quella divina. Il votante era un soggetto che si batteva per la Rivelazione, deliberava in un certo modo perché quella era la Verità. Se la maggioranza esprimeva la volontà divina, non poteva, allora, esistere una minoranza contro la Rivelazione: coloro che si opponevano andavano contro la Verità e venivano esclusi, eliminati, emarginati. Col tempo, però, il principio di unanimità mostrò i suoi risvolti negativi. Spesso la minor pars, cioè la minoranza dissenziente, era composta da uomini che godevano di un’ottima considerazione sociale, cioè da persone dotte, sagge, sante. Si faceva strada il bisogno di dare spazio alla sanior pars, la parte più sana, migliore. Quindi si affermò il principio che a votare fosse la maior et sanior pars, parte maggiore quantitativamente e migliore qualitativamente. Fu grazie al parlamentarismo inglese, infine, che emerse il principio di maggioranza e si abbandonò l’unanimità, senza, tuttavia, che vi fosse il diritto alla conta dei voti, passo, questo, che si affermò successivamente. Ma per capire chi sono le minoranze politiche e come si dovrebbero comportare, la docente ha fatto ricorso al brano di Vangelo riportante l’episodio dell’uomo guarito dalla paralisi alla mano.
Chi è la minoranza in questo contesto? ha chiesto la Polimeni. «È l’escluso, colui che sta ai margini della comunità, è l’uomo con la mano paralizzata. Siede nella sinagoga ma nessuno lo vede.
Ecco il primo problema delle minoranze: nessuno si accorge di loro, sono allontanate, discriminate. Dunque il primo passo è fermarci, guardare le minoranze. Per poter dare corso al riconoscimento e alla tutele delle minoranze bisogna innanzitutto vederle». E ha proseguito: «poi Gesù chiama l’uomo e gli dice di alzarsi: si potrebbe dire in parallelo che le minoranze devono sollevarsi e sollevare le loro istanze, rivendicare i loro diritti, e non restare al margine. Si devono alzare, non essere passive: come l’uomo del Vangelo, sono chiamate ad andare al centro della comunità. Il processo che porta al coinvolgimento delle minoranze e al dialogo pluralista le interpella, poiché non dipende tutto dalle maggioranze. La maggioranza – nel Vangelo sono gli uomini nella sinagoga – si è fatta da parte, lasciando andare al centro la minoranza – l’uomo infermo – ma come può iniziare il dialogo? Per capirlo, bisogna ritornare al Vangelo. La mano è un arto fondamentale per agire e per presentarsi, è la prima forma di contatto sociale. Quell’uomo non poteva agire e comunicare con gli altri. Ma Gesù gli comanda di stendere la mano, ovvero di mettersi in comunicazione con gli altri. Le minoranze, dunque, non si devono rinchiudere dentro le loro ragioni e diritti, o nella loro rabbia per essere discriminati, per non essere trattati al pari. Se si lasciano dominare da questi sentimenti negativi, staranno nel mezzo ma non faranno nulla, avranno la mano paralizzata, non potranno agire. E qual è il centro della comunità? In riferimento all’idea di Stato che abbiamo, è il parlamento, luogo in cui maggioranza e minoranza dovrebbero discutere, parlare, incontrarsi».
Nella fase della discussione – ha spiegato la docente – la minoranza, o opposizione politica, ha a disposizione uno strumento che è la tecnica dell’ostruzionismo. Si tratta dell’uso esasperato delle regole e dei procedimenti contenuti nel regolamento di ciascuna Camera. Ciò avviene, per es., quando si iscrive a prendere la parola un numero sproporzionato di deputati o sanatori, e l’interminabile discussione rischia di pregiudicare il buon andamento dei lavori. Davanti ad un ostruzionismo che blocca la deliberazione, bisogna prevedere un contro strumento che permetta di rispondere a questo comportamento dell’opposizione che impedisce all’assemblea di votare, di decidere. E tale misura anti ostruzionistica è la “ghigliottina” parlamentare, la possibilità cioè del Presidente dell’Assemblea di tagliare la discussione, di decidere che in una certa data si voterà, facendo decadere tutte le modifiche che si volevano proporre e ponendo fine alla discussione.
Alla Camera dei Deputati – ha concluso la dott.ssa Polimeni – pur non essendo espressamente prevista dal regolamento, la “ghigliottina” è stata apposta per la prima volta nel gennaio 2014 dalla Presidente Boldrini, quando si era alla vigilia di una scadenza importante e ritenne opportuno porre fine alla discussione per affrettare la votazione.
Vittoria Modafferi