“Aldo Capitini” da una prossima pubblicazione di Vincenzo Musolino

Quello di Capitini non è post cristianesimo, è un iper cristianesimo:
la radicalizzazione di un pensiero religioso che non sostituisce Cristo ma aggiunge Cristo ai tanti cristi-crocifissi della Storia, sperimentandone la vita oltre la morte.
Questo accrescimento e questa intensificazione non depone la fede nel Dio personale ma declina la personalità in senso plurale, nel senso, appunto, del volto di Dio che si riverbera nei “fratelli più piccoli” che hanno fame e sete, che sono stranieri e nudi, malati e in carcere.
Le “opere”, quindi –  lo sfamare, l’accogliere, il curare, il visitare –  acquistano in Capitini un significato che trascende il dovere morale, la risposta, nei limiti della ragione, ad un imperativo categorico.
Le opere, la prassi decisa, il gesto risoluto del Samaritano sono, per il filosofo perugino, coessenziali alla natura umana, esistenziali ontologici di un’apertura originaria, quella al tu.
È il tu, la sua vicinanza e la sua mancanza, a realizzare l’uomo nel suo tragitto di vita e di morte: la stessa immortalità, la speranza nella vita eterna, ha senso, per Capitini, solo se si parte dal tu, dalla sofferenza per la sua dipartita, dalla reazione combattiva contro il destino di consunzione che lo attende, che tutti ci attende.
Cogliere questo movimento – intendere il tutti  come plurale del tu – significa raccogliere nelle nostre vite l’influsso e l’operatività dei morti che non cessa con il fatto bruto della loro apparente sparizione.
L’eternità degli essenti, infatti, significa proprio questo:
generalizzare, nella prassi, una condizione originaria a cui tutti siamo esposti.
L’amore non cessa con la morte, i morti proiettano la loro collaborazione nella vita di ciascuno come aggiunta sempre possibile.
Queste aggiunte, il processo sempre crescente che Capitini chiama “compresenza dei morti e dei viventi”, esprime un legame di unità che congiunge le generazioni passate con la presente e spinge la continua produzione di ciò che conta e che vale, l’edificazione costante del “mondo”  che resiste alla consunzione naturale; la speranza fattiva – Spes contra Spem – in una direzione di salvezza che tutti ci coinvolge, nessuno escluso.
Per questo la Realtà Liberata, l’escatologica capitiniana di superamento delle insufficienze attuali, non è un paradiso terreste a venire ma un modo diverso di interpretare e di incidere sul reale, che è già in atto e che dipende dal ruolo delle nascite e delle rinascite, dalle nuove luci sul mondo che arricchiscono le possibilità infinite proprie dei Singoli in relazione tra loro, del tu detto a tutti.
La nascita, quindi, e non la morte, ci schiude il significato profondo dell’avventura umana ed esprime una Politica che non può arrendersi alla mera gestione conservativa di ciò che accade, che non può accettare come inevitabile il movimento dialettico della “grande Storia” che tutti travolge per realizzare – astrattamente –  un significato ulteriore, collettivo, spirituale, un Tutto di senso (ricostruito sempre ex post) che macina i “tutti” come strumenti e “mezzi” sacrificati al fine ultimo.
Il movimento delle aggiunte, delle nascite, dell’accrescimento costante, della moltiplicazione di Cristo, scardina, invece, la dialettica dei “resti” e dell’irrilevanza dei Singoli, praticando l’eternità degli essenti, svolgendo le vite dei tu-tutti come fossero invincibili, destinate ad altro rispetto alla fine naturale dei propri corpi.
L’amore politico che ne deriva è, per ciò, nonviolento, disobbediente, non collaborante, sempre reattivo al male e alla morte.
La “rivoluzione di struttura” di cui ci parla il liberalsocialista Capitini è molto più che una rivoluzione sociale, è tramutazione del reale, travolgimento di limiti e insufficienze che non dipende dall’affermazione di un “unico” soggetto storico di potere.
Il potere di tutti, l’omnicrazia, significa per Capitini proprio questo:
è la “compresenza dei morti e dei viventi”, la pluralità del libero apporto di tutti, il “soggetto storico rivoluzionario” cui è sempre possibile l’affermazione corale di “valori” continuamente aperti alle nuove aggiunte di senso che promanano dalle nuove vite.
Persuadersi di questo, agire di conseguenza, significa dare forza ad una tradizione carsica della teologia-politica occidentale: la tradizione di Hannah Arendt e di Agnes Heller, ad esempio.
La tradizione della “radicalità del bene” e del mirum che accompagna l’ epifania costante della “persona buona”.
La tradizione del lavoro di contenimento contro l’anomia svolta da una Politica conscia tanto della rete di protezione sfondata propria della modernità (l’assenza di sicurezze), quanto dell’aiuto, della stampella, della fiaccola al passo, che l’uomo, che ogni uomo ha la possibilità di raccogliere, come un testimone, nella propria vita.
Un “testimone” per vincere ogni automatismo violento, ogni condanna “per sempre”, ogni pavido piegarsi alla collaborazione nell’annientamento del “tu”.
Vincenzo Musolino