“Autorità e giustizia nello spazio della responsabilità”

Aderire al metodo della nonviolenza significa pensare e praticare la giustizia. È compito della politica organizzare una convivenza giusta. Sulla stessa nozione di giustizia è sempre bene ritornare a riflettere. Così Giovanna Cassalia – docente di antropologia filosofica presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Reggio Calabria – ha introdotto la sua lezione all’Istituto di formazione politico-sociale Monsignor Lanza.

La docente ha precisato che la giustizia è pensata in molti modi, non necessariamente alternativi, anche con riguardo ai diversi ambiti di applicazione. E ne ha ricordati alcuni. Giustizia retributiva, ad esempio, o punitiva: è quella che prevede che ad ogni colpa corrisponda una pena adeguata, fino – all’occorrenza – alla reclusione. Solo allora ‘giustizia è fatta’, si dice. Come se bastasse, per sanare o richiudere la ferita inflitta alla società, rinchiudere il delinquente, escluderlo dalla società offesa. C’è forse nell’idea della giustizia retributiva la convinzione che chi fa soffrire l’altro merita almeno una pari quota di sofferenza, che diventa la ‘giusta’ misura della pena. Ma è davvero la moltiplicazione della sofferenza la giusta misura della giustizia? Certo che bisogna tutelare la società e rendere non ulteriormente offensivo il delinquente, e che ad ogni offesa debba corrispondere una pena; ma a ben vedere è una più esigente domanda di giustizia che è posta in ogni pur comprensibile e legittima richiesta di pena. E la domanda di giustizia non è del tutto soddisfatta con la sola risposta dell’applicazione d’una pena. Essa è assai di più.

Di più recente teorizzazione, e l’avvio anche di encomiabili, seppure ancora non numerosi, tentativi di applicazione in ambito penale, è la cosiddetta giustizia riparativa. Si tratta di un procedimento semplice, volontario, libero ed anche liberatorio, che cerca di riparare un rapporto compromesso dall’azione delittuosa, una frattura avvenuta nella società. Con l’intervento anche di mediatori ben formati, il reo partecipa insieme alla vittima o ai suoi familiari agli effetti distruttivi della sua condotta al fine di ripararli. Questo percorso testimonia l’attenzione sia verso il colpevole – che dev’essere accompagnato a ritrovare la corretta misura della sua dignità da lui stesso disonorata e compromessa – sia verso la collettività. È una giustizia di guarigione per tutta la società.

Abbastanza risalente nel tempo la riflessione sulla giustizia distributiva. Tanto invocata quanto altrettanto disapplicata. Essa prevede una distribuzione equa e giusta di beni e risorse. Necessaria e urgente nella organizzazione e gestione della vita consociata, questa giustizia tuttavia, anche perché interpretata per lo più con riferimento alla ripartizione di ‘beni’ e risorse materiali – che nella pratica avviene peraltro in modo del tutto diseguale – resta comunque assai al di sotto del ‘dovuto’ a ciascuno in termini di ‘bene’ e di riconoscimento ed effettiva fruizione di diritti. Condizioni imprescindibili invece, queste, per abitare uno spazio sociale e politico entro il quale ci siano per ciascuno le condizioni di crescita nella sua irriducibile individualità, che matura e germoglia dentro una sana ospitale socialità.

Una giustizia che si faccia carico di restituire i diritti a coloro che ne sono stati privati è quella significativamente pensata come giustizia restitutiva. Reintegrare ciascuno nei suoi diritti  fondamentali è compito e responsabilità di tutti: rimanere indifferenti dinanzi alle tante situazioni di privazione dei diritti significa esserne complici.  

È la politica chiamata in modo peculiare a costruire rapporti di giustizia. E la politica è strettamente correlata all’autorità. Che a sua volta convoca all’obbedienza. Concetti ambigui, politica autorità obbedienza, e oggi in grave crisi, a vantaggio di un esasperato e malinteso senso del potere e della libertà.

La politica chiamata in causa – ha sottolineato la Cassalia – non è solo quella in senso stretto, ‘dei politici’, ma la politica in senso pieno. Quella che è di pertinenza di ogni membro della società, da ciascuno interpretata, vissuta e servita. E la declinazione politica dell’autorità avviene sì anche nel modo della cosiddetta autorità funzionale o istituzionale, propria di chi esercita – per periodi determinati e per precise definite funzioni – il potere legittimo di dare ordini e di imporne l’esecuzione. Ma solo. Essa è ben di più. E tutti ne siamo investiti e co-implicati, ha detto la docente. Inscritta com’è nell’ordine della giustizia (l’autorità è per la giustizia, ha insistito), essa attiva la responsabilità di dare e restituire il ‘dovuto’ a ciascuno da tutti e a tutti da ciascuno. Anche l’obbedienza perciò non dovrebbe aver nulla a che fare con la passiva e acritica sottomissione all’autorità, come solitamente si ritiene perché si identifica il binomio autorità-obbedienza con dominazione-subordinazione.

L’autorità, legata originariamente all’atto politico e religioso della fondazione della città, – e reinterpretata dal cristianesimo a partire dalla creazione –  dice insieme il legame resistente e permanente con l’origine e la necessità dell’accrescimento, dell’espansione. L’autorità fa (dovrebbe far) crescere, dunque. Ma la sua traduzione storica racconta anche di tante sue degenerazioni e degli effetti devastanti prodotti quando essa è stata intesa come esercizio di un potere di costrizione, di dominio, violento. Non s’impone l’autorità. Non si fa valere attraverso forme coercitive ed escludenti. Non ammette spirito competitivo o costruzioni difensive (barriere, filo spinato nelle forme vecchie e nuove). Non insegue riconoscimenti formali per autenticarsi. Se così fosse non promuoverebbe crescita. La vera autorità non rientra nella logica di una relazione di dominio, ma in quella del legame fiduciale. E l’obbedienza virtuosa è quella di chi non solo ascolta – come l’etimologia pure suggerisce – ma si situa dentro questa relazione fiduciale nelle forme via via più consapevoli di libero affidamento. Alla obbedienza si sono sempre associate docilità e mitezza come suoi tratti distintivi; si comprende in questa luce che esse, non significando subordinazione servile, hanno da accompagnarsi sempre con apertura e senso critico. Dunque relazione fiduciale, quella che lega autorità e obbedienza, ad alta densità educativa, anzi co-educativa: chi è autorevole aiuta a crescere, a cercare e conoscere, a vivere e fare la verità, perché egli stesso in un certo senso “obbedisce”, cioè vede, ascolta e cor-risponde all’appello di crescita e di compimento di altri; ne promuove e nutre la graduale liberazione della libertà e con essa l’esercizio della responsabilità. E facendo questo cresce egli stesso. Per questo suscita l’obbedienza-affidamento – che è cosa sostanzialmente diversa dall’obbedienza-sottomissione – da parte di chi gli riconosce la capacità di attenzione e cura per il proprio cammino di umanizzazione.

È nel movimento di circolarità corresponsabile tra chi esprime autorità e coloro a cui l’autorità si rivolge che essa trova senso; non nella unidirezionalità asimmetrica di chi ‘può’ comandare e di chi ‘deve’ obbedire. Pena un impoverimento se non addirittura uno snaturamento etico-antropologico.

 

Vittoria Modafferi