“I meccanismi della nonviolenza: il modello di Pat Patfoort”

Gestire in maniera nonviolenta i conflitti che sorgono nelle relazioni interpersonali, dall’ambito della vita quotidiana fino alle politiche internazionali, è possibile. A volte con risultati impensabili. Il segreto sta in un processo creativo e trasformativo che permette di arrivare a soluzioni efficaci. Una delle personalità che ha teorizzato e vissuto la fattibilità delle politiche e delle azioni nonviolente è l’antropologa fiamminga Pat Patfoort, mediatrice internazionale con esperienze di facilitazione tra gruppi etnici e gestione di conflitti interculturali. La sua figura e il suo pensiero sono stati al centro di una lezione svolta all’Istituto di formazione politico sociale “Monsignor Lanza” da Tiziana Tarsia – sociologa e docente dello stesso Istituto.

Il modello teorico della Patfoort – ha esordito la Tarsia – si basa su tre idee fondamentali: la diversità tra esseri umani, che spesso scompare in situazioni di conflitto, quando ci si dimentica che esistono bisogni diversi per ogni persona e difficilmente negoziabili. Il secondo elemento è l’istinto di conservazione, grazie a cui si tende a preservare la propria identità in circostanze di disagio e conflitto; il terzo principio è la comunicazione. Su questo punto la Patfoort consiglia di osservare delle semplici regole se si desidera comunicare con l’altro e ascoltarlo profondamente: non interrompere la comunicazione, contenendo l’ansia anticipatoria e la frenesia di dare risposte che impediscono l’ascolto; non reagire immediatamente, soprattutto in presenza del silenzio che non va subito riempito ma gestito e sostenuto.

Stabiliti questi elementi, l’antropologa passa ad esaminare ciò che genera violenza nelle persone, che è un modello di relazioni chiamato “modello maggiore-minore”. In base a questo schema relazionale – che consiste in una logica bipolare senza sfumature – c’è sempre una persona che sta in una posizione maggiore e l’altra in posizione minore, per disparate ragioni, come la diversa capacità organizzativa o di fronteggiare emergenze (si pensi ai ruoli dei componenti di  una famiglia). A volte si tende a collocare l’altro in posizione minore a causa di giudizi di valore (l’interlocutore è ritenuto incapace di fare o di agire) generati da incomprensione e incapacità di comunicare. Questo modello, che è il nostro modo usuale di relazionarci, fa attivare dei meccanismi che generano violenza e la amplificano quando si allarga il raggio di azione in contesti più ampi.

Più precisamente, i tre meccanismi di violenza individuati dalla Patfoort sono l’escalation, la catena e l’interiorizzazione. Nel primo caso, chi è in posizione minore non riesce più a sostenere la situazione e l’unica strategia a sua disposizione è quella di attaccare per assumere la posizione maggiore. Le persone, così, continuano ad aggredirsi aumentando il grado di violenza e attivando un’escalation. Ci sono situazioni, invece, in cui il soggetto non riesce ad assumere una posizione maggiore nei riguardi di chi lo aggredisce e allora se la prende con un’altra persona. Si innesca così una catena e la violenza si estende. Altre volte chi è in posizione minore è talmente soggiogato che non riesce nemmeno ad attaccare un altro e danneggia se stesso: questo meccanismo è detto interiorizzazione. Nel modello analizzato si sviluppa un’intensa energia dovuta alla rabbia, che, se non si esterna e non si incanala adeguatamente, reca danno a sé o agli altri. Eppure secondo la Patfoort esiste un altro modo per affrontare le relazioni che è quello del “modello di equivalenza”. Esso si basa sui “fondamenti”, laddove il modello maggiore-minore era basato sugli argomenti. Questi ultimi corrispondono alle nostre motivazioni più superficiali e non esprimono i bisogni. I fondamenti, invece, stanno alla base di ciò in cui si crede, sono i valori, le abitudini, le capacità, le emozioni, gli obiettivi, gli interessi. Quindi se vogliamo costruire relazioni e azioni nonviolente dobbiamo muoverci sul modello dell’equivalenza, cioè essere in grado di auto rivelarci, mettendo in campo le emozioni e gli interessi per riuscire a entrare in sintonia con l’altro.

E la Patfoort illustra tre passaggi fondamentali della nonviolenza. Primo, il “sondaggio” dei fondamenti che serve per comprendere quali sono i valori profondi nostri e degli altri. Secondo, applicare una comunicazione nonviolenta e ciò è possibile se riveliamo noi stessi e le nostre emozioni e se ascoltiamo le rivelazioni dell’altro. Terzo passo, prendersi una pausa e distanziarsi dall’altro per poi tornare a lui e arrivare a una soluzione nonviolenta attraverso un processo creativo e trasformativo. La mediatrice belga, infatti, crede nella capacità trasformativa di un conflitto, è convinta che un contrasto può modificarsi in maniera nonviolenta e prendere forme gestibili. Il conflitto, in linea generale, nasce dalla carenza di risorse, per cui è fondamentale capire che ogni parte in causa ha dei bisogni ed è indispensabile sapere cosa vuole veramente ognuno.

Talvolta accade che per difetto di comunicazione, non si palesa ciò che si vuole e le parti coinvolte continuano a litigare senza sforzarsi di trovare una soluzione che li soddisfi. Elemento centrale dell’azione nonviolenta è quindi il processo creativo, cioè la capacità di arrivare insieme a una soluzione. Tale processo si basa su una visione aperta dei problemi secondo cui non esiste un’unica soluzione, ma si possono trovare diverse alternative. Ciò permette di attivarsi, di dare sfogo alla fantasia: questa è la fase “divergente” che consente di pensare alle diverse possibilità di risoluzione della questione. Mentre la fase “convergente”  consiste nel rielaborare e sistematizzare quanto espresso in precedenza. Spesso, tuttavia, si va dritti alla seconda fase, ci si concentra su una soluzione che sembra la più logica, la più facile, senza passare dalla fase divergente che è foriera di tante idee creative.

Lo sforzo creativo invece, secondo la Patfoort, è l’elemento che ci può aiutare a gestire in maniera efficace i conflitti perché ci consente di non fermarci a rimedi facili o immediati. L’esperienza insegna, infatti, che continuando a pensare e a riflettere possono emergere soluzioni originali ed efficaci.

 

Vittoria Modafferi