La necessità della temperie: un’apertura politica che non condanni all’immobilismo, alla pena senza scampo del reo inchiodato al fatto

È altamente pericoloso uno scopo – anche di riforma radicale del reale –  che sacrifichi alla violenza, alla dittatura, alla potenza, il destino degli uomini.

Ciò che assume davvero rilevanza sono gli strumenti della politica: Il fine, infatti, vive già nel mezzo approntato per raggiungerlo; si palesa nella prassi politico-sociale che concretizza e rende visibile, già ora nel presente, l’obiettivo da raggiungere.

Rinviare il “bene politico” per l’immaturità dei tempi e assumere mezzi discordi da questo fine per mutare il presente, significa tradire ogni positivo sviluppo sociale, mortificare l’approdo.

L’autoritarismo, infatti, alberga proprio in questo approntare mezzi discordi – violenti – rispetto ad un futuro dipinto come pacifico e risolto.

Aldo Capitini parla, a proposito, di “fiducia cieca”, di una vuota retorica che nega in nuce la fede dei persuasi religiosi.

La persuasione, infatti, sorge proprio dalla assoluta corrispondenza tra mezzi nonviolenti, aperti e democratici, e il fine della realizzazione di una società libera e giusta.

Ciò che conta, quindi, non è tanto il “Chi”, il soggetto storico dell’afflato riformatore ma il “come” della riforma sociale che è tanto più radicale quanto è più indirizzato alla nonviolenza e al coinvolgimento di tutti nell’esercizio del potere.

Contano più i soggetti, i singoli coinvolti nella battaglia politica per il miglioramento possibile, che il Soggetto storico – Stato, classe, partito o razza, poco importa – autoproclamatosi come incarnazione del futuro politico.

Solo se l’apertura all’altro, alle sue ragioni, è totale, si può giungere a quell’accordo tra diversi, ad una politica davvero popolare (perché pluralista) che sappia assicurare l’equilibrio tra libertà e giustizia.

Non è un equilibrio, quello di Capitini,  rassegnato ad un minimo di risultato ma rapportato ad un “massimo” di articolazione congiunta, nel quale, appunto, il massimo di libertà si coniuga con il massimo di socialità, proprio grazie all’affermazione degli “strumenti” pratici, di categorie come l’apertura e la nonviolenza.

Categorie liberalsocialiste e democratiche, queste, che, come tali, depongono gli aculei della sopraffazione e dell’ideologismo cieco, affermando il primato della persona, del tu.

Ecco, quindi, che la prassi religiosa di Capitini – quella del tu-tutti – si mostra unita all’aspirazione politica, non c’è differenza:

l’Omnicrazia – il potere di tutti – è infinito superamento di limiti e insufficienze che si realizza nella prassi di un valore/bene/comunità che è di tutti e che spetta a tutti senza slittamenti verso istituzionalizzazioni forzate e ottusità burocratiche.

Non conta sentirsi nel giusto, conoscere il nostro valore, affermare il disvalore altrui.

Il piano morale si realizza nella dialettica, nella lotta contro il male, rimanendo così nella realtà che tutti conosciamo. E il piano religioso? Il persuaso religioso non si rassegna alla dialettica, opera per una realtà diversa, trasfigurata.

Una realtà nella quale il male è superato attraverso un’apertura che non condanna all’immobilismo, alla pena senza scampo del reo inchiodato al fatto. Il piano religioso non è il piano giuridico.

La battaglia contro il male è, innanzitutto, non rassegnarsi alla sua invincibilità; è una libera aggiunta che coinvolge anche i peccatori, che ne trascende i limiti riconoscendoli – riconoscendoci – capaci, infinitamente capaci di altro, di riscatto e rinascita.

Così operando, emerge il contributo di tutti nella realizzazione concreta dei valori, senza lasciare nessuno indietro.

Emerge il ruolo del perdono che vede nell’altro qualcosa di meglio di un peccatore, che abbandona il riflesso condizionato della violenza reattiva, della pena come risposta, mezzo, rigido strumento correzionale per raggiungere il fine dell’espiazione.

Solo un mutamento radicale di paradigma, solo la scelta dei mezzi opportuni, nonviolenti, può giungere davvero ad eliminarne la radice del male.

Ci vuole qualcosa di diverso e di meglio del procedere giuridico delle pene. L’isolamento concentrazionario, l’esercizio della forza, l’ammonimento agli altri attraverso l’uso e l’abuso di potere produce senz’altro un freno temporaneo al peccato ma non muta la realtà.

Solo la persuasione muta la realtà: la speranza che agisce convinta del fatto che anche il reo sia capace di produrre valori, la coscienza che muta nel riconoscersi capace di liberazione e novità.

Tutte dinamiche, pratiche, che fondano il piano religioso perché non si consegnano alle chiusure, ai limiti, ma tentano la strada diversa, difficile, del non arrendersi alle imperfezioni.

La persuasione religiosa è intimamente connessa al sentimento di fraternità e uguaglianza. Aprirsi al tu-tutti è essenzialmente questo: abbattere le distanze, spianare i falsi troni, contestare le false ragioni di una virtù considerata appannaggio esclusivo di casta, di classe, di provenienza, tradizione, identità.

Apertura e libera aggiunta, in un contesto morale-religioso, significano imparare a sentire il malfatto degli altri come responsabilità propria, come intimamente legato al proprio vissuto ed esercitarsi in una costante aggiunta di bene che nasce dall’intimo dolore per una correità ammessa, confessata.

Dice Capitini: “quello che tu hai fatto ora l’avrei potuto fare mille volte io, e forse più sporcamente”.

Questa consapevolezza ci aiuta a strutturare – anche nelle lotte politiche contro l’affermazione terribile della ragion di Stato – un centro religioso che non leghi per sempre le persone ai fatti, che non le condanni per sempre tra i nemici, tra i criminali.

I viventi, ci dice Capitini, non sono schemi, e i morti realizzano il loro contributo di salvezza corale ben oltre la morte.

 

Enzo Musolino

 

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Articolo tratto da un saggio di prossima pubblicazione per l’editore “Città del Sole” sulla filosofia politica di Aldo Capitini