Il quadro politico delineatosi in Italia dopo le elezioni è decisamente frammentato. E forse ingovernabile. A fronte di una destra che ha tenuto, e di un movimento di protesta che ha guadagnato molti consensi, la sinistra sembra aver “perso la bussola” accusando una crisi di identità. In un contesto sociale ed economico fortemente mutato, il suo tradizionale legame con il mondo del lavoro è venuto meno. Ma quali sono le caratteristiche dello scenario in cui viviamo? E quali le politiche adottate per far fronte alla crisi? Su queste problematiche si è soffermato Antonino Mazza Laboccetta – ricercatore in diritto amministrativo all’Università Mediterranea – durante la lezione svolta all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.
Il docente ha ricordato che il capitalismo industriale, affermatosi nel XIX secolo, ha lasciato il posto a quello finanziario, producendo delle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Nel corso del ‘900 il potere economico detenuto dai proprietari dei mezzi di produzione, ovvero da pochi capitalisti, venne controbilanciato dall’ingresso delle classi subalterne nell’agone politico grazie al suffragio universale. Così si creò una sorta di compromesso tra il capitalismo industriale e la democrazia, tra “i pochi” che avevano il potere economico e “i molti”, soprattutto lavoratori salariati privi di diritti sociali, che entravano nella scena politica. Ciò significò un crescendo di conquiste per la classe operaia, attraverso il potenziamento del ruolo dei sindacati e l’affermazione dei diritti dei lavoratori. Si verificò inoltre la politicizzazione dei rapporti sociali e politici: erano le forze politiche, cioè, che mantenevano il potere di allocazione delle risorse. Questo paradigma e il meccanismo di garanzie per il mondo dei lavoratori – messo in piedi dall’allargamento del suffragio elettorale – iniziano a mutare intorno agli anni ‘80. Il compromesso tra forze economiche e politiche si spezza, e irrompe sulla scena il potere della finanza. Quest’ultima però non si caratterizza per l’erogazione del denaro sottoforma di credito a famiglie ed imprese, stimolando così i consumi e gli investimenti produttivi. È piuttosto una finanza che investe in attività speculative e punta unicamente a fare denaro.
Oggi il potere economico – capace di spostare masse enormi di capitali da un punto all’altro del globo – decide l’allocazione delle risorse, detta l’agenda politica e suggerisce ai governi il da fare. L’economia, in sintesi, domina la politica. Lo stesso fondamento politico ed ideologico che era stato alla base delle costituzioni materiali dei Paesi democratici e aveva permesso il miracolo economico in Italia, – ovvero il pensiero economico di Keynes – viene ribaltato dall’irrompere dell’ondata neoliberista che diventa anche “pensiero unico”. La teoria economica di Keynes – ha precisato il prof. Mazza – intendeva promuovere politiche sociali, attraverso l’aumento della spesa pubblica produttiva, capaci di creare occupazione che, stimolando la domanda e i consumi, alimenta il meccanismo della crescita economica. Il liberismo, invece, si fonda sulla fiducia nel funzionamento delle dinamiche del mercato che, lasciato a se stesso, trova la sua naturale regolazione. Domanda e offerta si incontrano a un livello tale da garantire la piena occupazione. Le politiche neoliberiste attuate da Reagan e Thatcher, per fare un esempio, erano connotate da una riduzione delle tasse finalizzata alla redistribuzione delle risorse a vantaggio dei profitti. Questi però non sono stati investiti in attività produttive bensì trasferiti in operazioni finanziarie. Sono cresciuti i profitti dell’economia finanziaria e non reale, con una stagnazione di salari e stipendi che ha inciso sulla domanda aggregata. Tuttavia, negli Stati Uniti degli ultimi due decenni, questa compressione dei salari non ha causato effetti recessivi perché i consumi e i livelli di spesa sono stati sostenuti da politiche di espansione del debito delle famiglie, che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Quando è scoppiata la bolla finanziaria il sistema è crollato e ha trascinato anche gli altri Stati che hanno dovuto contrarre le esportazioni verso gli Usa.
Oggi il governo americano – ha proseguito Mazza – sta rispondendo alla crisi con politiche di sostegno alla domanda aggregata attraverso l’aumento del disavanzo pubblico, ritornando, in sostanza, a politiche keynesiane. In Europa, invece, le ricette sono di segno opposto. Si continua ad aver fiducia nel liberismo, sostenendo che il ridimensionamento degli squilibri può ristabilire l’ordine naturale del mercato. Squilibri che, nel caso italiano, sono imputati a un considerevole disavanzo pubblico e a salari eccessivamente elevati. Dunque la soluzione è rintracciata in politiche “lacrime e sangue” all’insegna dell’austerity. Inoltre il nostro Paese è stato messo dentro la camicia di forza del fiscal compact, e deve perciò impostare politiche rigorose sul piano fiscale.
Di fronte a questi cambiamenti sociali ed economici, il mondo del lavoro non solo sta perdendo molte garanzie conquistate nel secolo scorso, ma non si sente nemmeno rappresentata dalla sinistra, che ha perso il contatto con il suo elettorato. E soprattutto sembra non capire le trasformazioni di questo momento storico, non trovando una sua collocazione e identità.
Vittoria Modafferi