Un documento che mette ordine e “dice la sua” a proposito di un aspetto fondamentale della vita della Chiesa. Il Motu proprio di Benedetto XVI “Sul servizio della carità” è un testo che certamente avrà delle conseguenze per le realtà ecclesiali che si occupano di questo ambito. Carmine Gelonese – delegato regionale di Azione Cattolica – e Orsola Foti – responsabile provinciale del MOVI – hanno illustrato ai corsisti dell’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza” le caratteristiche del motu proprio.
Gelonese si è soffermato sul rapporto tra fede e carità chiaramente ribadito dal pontefice emerito. Chi opera nel servizio alla carità – ha precisato – deve avere un principio ispiratore indispensabile, ovvero la fede. Le opere senza la fede sono puro attivismo, e considerando solamente il lato pratico-organizzativo, si può notare che molte realtà caritative sostenute da non credenti sono migliori di quelle cattoliche. L’azione pratica, quindi, è insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. Quindi le opere di carità non vivificate da persone che hanno incontrato Cristo restano delle semplici attività organizzative che vanno avanti grazie alla professionalità di chi le conduce, ma non esprimono carità in senso cristiano. Viste nell’ottica corretta, le opere di carità non sono assistenzialismo, bensì vero servizio all’uomo (che si trova in situazione di disagio o sofferenza), finalizzato a fargli riacquistare la sua dignità. Inoltre, il servizio alla carità, come ricorda Benedetto XVI, fa parte della vera natura della Chiesa. Non è un di più – ha rimarcato Gelonese – che rende bella la struttura della Chiesa, ma è un elemento costitutivo della sua natura.
Venendo al contenuto, il documento cerca di mettere ordine in tutte quelle realtà che sorgono su iniziativa di fedeli e presbiteri. Esso ha un carattere normativo e quindi vincolante, e non è una semplice lettera di esortazioni. Il primo punto interessante si evince nell’art.1§1, dove si afferma che le associazioni promosse dai laici che vogliono agire in nome della Chiesa devono sottoporre il loro statuto all’approvazione dell’autorità ecclesiastica e cioè del Vescovo. In tal modo si stabilisce – ha notato Gelonese – che non qualunque opera caritativa può fregiarsi del titolo di cattolica, ma solo quelle riconosciute dal Vescovo. In questo variegato universo, infatti, ci sono organizzazioni che pretendono di rappresentare la Chiesa e il mondo cattolico ma in realtà non ne hanno titolo.
Un altro aspetto rilevante riguarda il profilo degli operatori, che devono essere adeguatamente selezionati all’interno delle associazioni operanti nel servizio alla persona. Nel passato si è pensato troppo al rispetto formale di certi requisiti, come il profilo professionale, mentre invece ora si richiede un ”esempio di vita cristiana” e una “formazione del cuore che documenti una fede all’opera nella carità”. Da sottolineare poi il grande compito di vigilanza che viene assegnato al Vescovo sia sui beni degli enti soggetti alla sua autorità, sia sulla linea di sobrietà che deve attraversare tutte le iniziative da lui dipendenti. Infine, le associazioni caritative devono presentare al loro Vescovo un rendiconto annuale, similmente a ciò che fanno le organizzazioni profit. Questo profilo contabile – ha terminato Gelonese – non toglie nulla alle finalità dell’ente, bensì lo rende più trasparente e soggetto a criteri di buona amministrazione.
Dunque si tratta di un documento con potenzialità ancora da applicare, i cui pregi e le cui criticità sono stati sottolineati dall’avvocato Orsola Foti. Il Motu proprio – ha dichiarato – è un testo organico che ha il merito di regolare il mondo degli enti che si occupano del servizio della carità, facendolo passare da una strutturazione in cui era importante la spontaneità e lo spirito di solidarietà, ad una strutturazione con delle innovazioni profonde. Tra gli aspetti positivi si evidenzia lo spirito di sobrietà a cui devono improntarsi sia le attività che gli operatori, nei quali non deve esistere una frattura tra il lavoro e l’ispirazione cattolica che anima la loro vita quotidiana. Quindi altrettanto rilevante è l’organizzazione di percorsi di formazione per gli operatori.
Un altro profilo innovativo si rintraccia negli articoli che sottolineano l’importanza del lavoro di rete delle associazioni, aspetto, questo, che non era certo un cavallo di battaglia del mondo cattolico. Gli art. 6 e 8 affidano al Vescovo il coordinamento delle varie iniziative e l’istituzione di un apposito ufficio per una gestione collaborativa. Si profila, inoltre, la possibilità di articolare ulteriormente le Caritas, facendo nascere delle entità interparrocchiali che possono operare a livello di zona relazionandosi tra loro. Il lavoro di rete appare quindi come l’anima di questo documento, come un traguardo di vera maturità.
Tuttavia, sono presenti anche aspetti di criticità che non possono essere taciuti – ha precisato ancora la Foti. L’art.7, ad es., afferma che le associazioni devono “selezionare i propri operatori tra persone che condividano o almeno rispettino l’identità cattolica di queste opere”. Questo discorso rientra in un terreno difficile da identificare nettamente. Non è detto, infatti, che chi si professa cattolico riesca nella prassi a vivere pienamente quella identità, o che, invece, un non credente abbia un senso religioso dell’uomo meno profondo di un credente.
Un altro punto critico si rileva nell’art.2, laddove si fa riferimento alla molteplicità delle iniziative che devono essere regolate dall’autorità ecclesiastica. Qui sembra che il documento consideri questa pluralità di opere come un pericolo piuttosto che come una ricchezza. Nel mondo del sociale, invece, le diverse forme di servizio alla persona non sono mai un ostacolo. Anzi, hanno un rapporto dialettico con il territorio e con i bisogni di chi riceve i servizi, e quindi il moltiplicarsi delle attività rientra nella duttilità di questo sentire il territorio e rispondere adeguatamente ai suoi bisogni. Questo aspetto – ha concluso la Foti – nel documento sembra non essere valorizzato appieno.
Vittoria Modafferi