Da Lo scontro delle civiltà di Samuel P. Huntington in poi , il dibattito politico e giuridico ha guardato alle tensioni fra identità religiose diverse con una costante preoccupazione per il rischio di estremizzazioni e violenze, purtroppo accresciuta dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001. Tuttavia, e nonostante le apparenze potrebbero indurre a credere il contrario, siamo fermamente convinti che l’opposta prospettiva dell’incontro fra religioni, culture, civiltà, rappresenti ancora oggi una strada non solo altamente desiderabile ma anche concretamente percorribile, benché non agevole .
Può forse essere utile, al riguardo, capire se e cosa il diritto abbia da dire di fronte a tale importante sfida, ben al di là del semplice riconoscimento del classico principio di tolleranza.
Se, in generale, il diritto costituisce uno strumento di “ordine” sociale e di “composizione” dei conflitti in una data comunità, in particolare il diritto costituzionale – come ce lo fa conoscere da almeno due secoli a questa parte la tradizione giuridica occidentale – rappresenta il tentativo di razionalizzare giuridicamente i conflitti politici al più alto livello, perseguendo l’obiettivo della pacificazione sociale attraverso il confronto democratico delle idee nella cornice assiologica consegnatici dal costituzionalismo moderno. A quest’ultimo, infatti, è intimamente connaturata l’idea di “limite al potere” in funzione dei diritti .
Il moltiplicarsi delle Carte o Dichiarazioni internazionali dei diritti negli ultimi 60 anni, non solo in Occidente, offre un’importante testimonianza – seppur non l’unica e certo, da sola, non decisiva – del fatto che si tenda oggi a considerare i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà, dignità (per richiamarne solo alcuni) un patrimonio assiologico irrinunciabile per il diritto degli “Stati costituzionali” contemporanei, che su tale patrimonio – unitamente al principio democratico – fondano la propria legittimazione . Ciò rappresenta un vero e proprio passaggio epocale nell’evoluzione degli ordinamenti statali, che si riflette in un profondo quanto radicale mutamento di senso del paradigma che per secoli ha identificato il supremo potere politico sul territorio, la sovranità . Non è quindi un caso che i ricordati valori, pur “trascendenti” il singolo ordinamento per la loro natura trans-culturale e sovra-epocale, vengano il più delle volte formalizzati in solenni documenti costituzionali, prevalentemente sotto forma di princìpi .
Tutto ciò, comunque, non implica che sia necessario assecondare una rigida gerarchia di valori (e princìpi), eventualmente trasfusa in un’immutabile piramide di diritti positivamente enunciati. In quanto multi-etnici, multi-culturali e multi-religiosi – in una parola pluralistici – gli Stati costituzionali sono consapevoli che un tale esito presenterebbe il forte rischio di amplificare i conflitti sociali, in special modo quelli con fondamento religioso. È un rischio che ogni società autenticamente pluralista e popperianamente “aperta” sa di correre nel momento in cui individua e isola – come pure è necessario che faccia, esplicitamente o implicitamente – i propri fondamenti, i propri valori superiori (dai quali deriva, a ben vedere, la superiorità della stessa Costituzione rispetto alle comuni leggi) .
Il diritto, in primo luogo quello costituzionale, “maneggia” continuamente valori (sociali); ma i valori possono essere “oggetti” molto pericolosi, soprattutto se li si usa con uno stile o un atteggiamento dogmatici, a causa della loro tendenza a divenire assoluti. Infatti, la definitiva prevalenza di “un” valore non semplicemente su bensì contro altri contrastanti valori può celare, sotto il velo di un’apparente pace sociale, una realtà che resta invece altamente conflittuale ed in perenne ebollizione .
Per un ordinamento democratico, la “tirannia dei valori” è dunque un pericolo sempre in agguato dietro ogni processo di attuazione di qualunque valore che – si badi – sia colto e realizzato isolatamente dagli altri. È, in fondo, il rischio dello Stato etico, sostanzialmente mono-valoriale e tota-litario . La regola aurea degli odierni ordinamenti costituzionali, pertanto, non può essere la signoria di un valore (o di un diritto) costituzionale su un altro, bensì l’equilibrio armonico fra gli stessi, la loro dinamica composizione, in una parola: il loro ragionevole bilanciamento.
Seguendo questa prima indicazione di metodo, è possibile affrontare anche i problemi pratici connessi alle c.d. pretese di riconoscimento della propria identità religiosa o etnico-culturale che singoli o gruppi legittimamente avanzano , trattandosi di un’aspirazione che rientra nel “bagaglio di libertà” custodito dalle Costituzioni liberaldemocratiche e personaliste.
Per essere realmente accolte, tali pretese debbono però misurarsi con la ricordata tavola dei valori fondamentali dello Stato costituzionale, fra i quali – nella materia considerata – un posto di primo piano è certamente da assegnare al principio di laicità, inteso come originaria indipendenza, tendenziale separazione e mutuo rispetto tra “sfera della politica” (Stato) e “sfera della religione” (Chiese o Culti), e dal quale discendono una reciproca incompetenza e un conseguente dovere di non ingerenza dell’una sfera negli affari dell’altra (cose ben diversa dall’asettica “neutralità” spesso invocata per lo Stato). Indipendenza, separazione e rispetto che – pur segnando un’esigenza sempre attuale – hanno in realtà radici ben più lontane nel tempo, dalle quali sono poi germogliati gli stessi presupposti per la nascita dello Stato moderno.
Anche se tale separazione/indipendenza è stata talvolta malintesa, talaltra mal praticata (o entrambe le cose), oggi si può comunque sostenere che la laicità sia un corollario fondamentale del riconoscimento del diritto inviolabile alla libertà di coscienza – obiettivo, a ben vedere, “laico” e “religioso” insieme – in ogni ordinamento autenticamente costituzionale, in quanto tesa a realizzare il fondamentale valore meta-giuridico della dignità della persona .
Questo secondo criterio metodologico è molto importante, soprattutto quando una o più etiche religiose ambiscono ad avere una copertura ufficiale da parte del potere politico (con il rischio, però, di essere a loro volta e loro malgrado strumentalizzate dalle élites governanti per fini di conservazione del potere stesso). Una gestione non esiziale dei conflitti che per tale via si generano è possibile proprio se la Costituzione viene vista non come opera di una parte sola, eticamente o religiosamente orientata , e neppure come una sede eticamente neutrale di istituzioni e meccanismi che si limitano a facilitare il costante rinnovo della deliberazione democratica , ma piuttosto e propriamente come una meta-etica pubblica che, nel momento in cui fissa i valori fondamentali “comuni” (procedurali e sostanziali) di una società pluralista, aperta e tollerante, rende possibili – tutelandole compatibilmente con tali valori – le singole etiche religiose nel contesto dell’ordinamento .
In tal senso si può comprendere come, anche in relazione agli eventuali conflitti fra religioni (e rispettive etiche), il diritto costituzionale assolva la sua classica, storica funzione: razionalizzare in forme giuridiche prestabilite lo scontro etico-religioso quando questo sia traslato dal piano meramente privato, individuale o collettivo, alla sfera pubblica-sociale, traducendosi in precise istanze politiche.
Entro questo orizzonte, dunque, le religioni sono chiamate a confrontarsi, senza mai cedere alla tentazione di rinunciare al dialogo, alla fiducia nella possibilità dell’incontro, anche quando essa è particolarmente forte e spingerebbe ad abbandonare il terreno del confronto per quello del conflitto, l’agorà per l’arena: la democrazia costituzionale è il regime della discussione e della persuasione (government by discussion), non della violenza e della legge del più forte. Nello Stato costituzionale, la via della pace è in conclusione quella dell’inter-culturalità, possibile solo se il dialogo non è visto come una contesa muscolare, ma come un parlare franco, guardandosi negli occhi e riconoscendosi uguali perché fratelli .
prof. Claudio Panzera
S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996.
Lucide riflessioni sul punto sono, fra gli altri, in E. BIANCHI, Per un’etica condivisa, Einaudi, Torino 2009.
«Constitutional limitations, if not the most important part of our constitutionalism, are beyond doubt the most ancient»: C.H. MCILWAIN, Constitutionalism: Ancient and Modern, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.) 19472, 22, ma v. pure C.J. FRIEDRICH, Constitutional Government and Democracy, Ginn & Co., Boston 1950, spec. 123. Sulla scrittura costituzionale come “tecnica” volta alla razionalizzazione del potere, poi, v. ampiamente B. MIRKINE-GUETZÉVITCH, Les nouvelles tendances du droit constitutionnel, Giard, Paris 1931.
In generale, cfr. P. HÄBERLE, Lo Stato costituzionale, Ist. enc. it., Roma 2005 e, nella dottrina italiana, spec. A. SPADARO, Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994. Sul carattere cosmopolita dell’attuale costituzionalismo, v. poi Q. CAMERLENGO, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Giuffrè, Milano 2007. Naturalmente, in ogni ordinamento è sempre presente uno scarto tra la formale dichiarazione di certi valori e il grado di reale attuazione degli stessi, ma la cosa è in sé piuttosto normale o fisiologica se si mantiene entro certi limiti (tutti i valori esprimono una finalizzazione dell’agire umano che non esaurisce mai la propria carica, neppure quando essi vengono “positivizzati” dal diritto in precise norme giuridiche); diventa invece un fenomeno patologico quando lo scarto assume proporzioni così preoccupanti da segnalare l’esistenza di una pericolosa frattura tra la “lettera” e la “vita” del testo normativo, ovvero fra Costituzione formale-vigente e Costituzione reale-vivente.
Al vecchio fondamento di autorità, cui corrispondeva una visione volontaristico-soggettiva della sovranità, si è infatti sostituito un nuovo fondamento di valore, nel quale la sovranità viene invece radicata in una dimensione prettamente assiologico-oggettiva (o, meglio, inter-soggettiva): per questa tesi, cfr. G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, 69 ss.
Sulla fondamentale differenza giusfilosofica tra princìpi e regole, v. per tutti: R. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1978, spec. 24 ss. e 71 ss., nonché R. ALEXY, Theorie der Grundrecthe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, 71 ss. Sulla qualificazione del diritto costituzionale attuale prevalentemente come “diritto per princìpi”, cfr., nella dottrina italiana, spec. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, 147 ss.
Sul punto, si rinvia per tutti a E.S. CORWIN, The “Higher Law”. Background of American Constitutional Law, in 42 Harvard Law Review, 149 (1928) e 365 (1929).
«Secondo la logica del valore deve sempre valere il principio che per il valore supremo il prezzo supremo non è mai troppo alto, e va pagato […] trasformando così la nostra terra in un inferno, ma l’inferno in un paradiso di valori»: C. SCHMITT, Die Tyrannei der Werte, in Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien. Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin 1967, 37 ss. (per la citazione si è qui usata la trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2008, 63-64). Per l’espressione “tirannia dei valori”, v. comunque N. HARTMANN, Ethik, De Gruyter, Berlin 19493.
Il concetto di “Stato etico”, va precisato, è però ben diverso da quello di “etica dello Stato”, al contrario sempre necessaria, come si vedrà subito.
Per un confronto sul punto, v. C. TAYLOR, Multiculturalism. Examining the Politics of Recognition, edited by A. Gut-mann, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1994, con commenti di K.A. Appiah, S.C. Rockefeller, M. Walzer e S. Wolf all’iniziale notissimo dibattito fra C. Taylor e J. Habermas sul tema.
Precisamente, la sempre più netta distinzione tra la potestas in temporalibus imperiale e l’auctoritas in spiritualibus papale a partire dal basso medioevo, seppur pur con alterne vicende: cfr. per tutti E-W. BÖCKENFÖRDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (1967), in ID., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, 92 ss.; di grande interesse per il tema è pure l’originale ricostruzione storica sull’approccio medievale, moderno e contemporaneo alla “lettura dei testi” di I. ILLICH, In the Vineyard of the Text: A Commentary to Hugh’s Didascalicon , The University of Chicago Press, Chicago-London 1993. Più banale invece, per l’incertezza circa la corretta interpretazione delle fonti, è la riconduzione del principio di laicità in senso moderno – nel significato, abbastanza comune, attribuitovi nel testo – alle parole rivolte da Gesù ai farisei «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt. 22, 21; Mc. 12, 17; Lc. 20, 25): per una recente indagine storica sull’attuazione pratica di questa massima, dall’antichità fino all’inizio dell’età moderna, v. M. RIZZI, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, il Mulino, Bologna 2009.
Nel concetto di “libertà di coscienza” si è opportunamente intravisto un fertile terreno d’incontro nel servizio che lo Stato costituzionale laico e la religione – segnatamente il cristianesimo – possono rendere alla persona umana, nel presupposto comune della tutela della sua dignità (o umanità): cfr. A. SPADARO, Libertà di coscienza e laicità nello Stato costituzionale. Sulle radici “religiose” dello Stato “laico”, Giappichelli, Torino 2008, spec. 228 ss., il quale scorge nei concetti di “laicità” e “religiosità”, per la comune radice, due facce di una stessa medaglia.
Come forse vorrebbe chi erroneamente identifica la religione della maggioranza dei cittadini con quella dell’intero popolo di uno Stato. La questione, apparentemente astratta, rileva in modo estremamente concreto in molte situazioni quo-tidiane, come testimoniano le recenti vicende del porto di simboli religiosi ostensible in Francia e dell’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici (scuole, tribunali, seggi elettorali) in Italia.
Come discutibilmente sostenuto, per esempio, da C.R. SUNSTEIN, Designing Democracy. What Constitutions do, Oxford University Press, Oxford-New York 2001; ma sul concetto di democrazia deliberativa, v. spec. J. HABERMAS, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt a.M 1992.
Cfr. ancora A. SPADARO, Libertà di coscienza, cit., 162 s., 222 s. e 261 ss.
Sul punto, si rinvia per tutti alle magistrali considerazioni di R. PANIKKAR, Pace e interculturalità. Una riflessione filoso-fica, Jaca Book, Milano 2002, spec. 41 ss. per l’opposizione fra dialogo che porta al conflitto (c.d. “dialettico”) e dialogo che favorisce l’incontro (c.d. “duologale”). Spunti interessanti sono pure in F. VIOLA, Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000, 175 ss., che opportunamente distingue interculturalità e multiculturalismo (p. 188).