“Stato costituzionale e nonviolenza: una via quasi obbligata”

Nei rapporti interpersonali la nonviolenza è probabilmente più razionalizzabile e di più facile attuazione. Ma passando ad un piano collettivo – laddove il nemico non è più interno bensì esterno – la questione si complica. La nonviolenza e il suo messaggio sono realistici in prospettiva pubblica? Cosa può fare lo Stato a tal proposito? Questi interrogativi e le possibili risposte, sono stati al centro del Laboratorio di partecipazione sociale, promosso dall’Istituto per lo studio delle problematiche educative “Giuseppe Lazzati” e dall’Arcidio­cesi di Reggio-Bova, con la collaborazione dell’I.S.S.R. e dell’Istituto di formazione politico-sociale “Mons. Lanza”. L’incontro di gennaio è stato guidato da Antonino Spadaro – docente di diritto costituzionale alla Mediterranea di Reggio – che ha focalizzato il suo intervento su due aspetti: la nonviolenza sul piano privato o soggettivo – del “nemico interno” – e poi sul piano pubblico collettivo, ovvero del “nemico esterno”.

Indispensabile  – ha affermato Spadaro – è capire innanzitutto cosa sia la violenza, parola che indica un’azione o un’omissione che vuole recare danno grave a una o più persone, alle creature o al creato. Questa definizione però non tiene conto dell’intenzione, elemento che qualifica un atto violento. Si ha violenza, infatti, quando lo scopo è causare il danno e non il bene dell’altro. Tuttavia ci sono casi problematici che ci interrogano sulla loro eventuale natura violenta: si pensi alla legittima difesa, o alla violenza esercitata su un incapace o un potenziale suicida per renderlo inoffensivo. Se il fine dell’azione violenta è il bene dell’altro, si può parlare ugualmente di violenza? Difficile trovare una risposta univoca, secondo il docente, così come è problematico definire la nonviolenza. Che tuttavia potrebbe essere paragonata a un prisma con molte facce.

La nonviolenza infatti implica coraggio, capacità di odio/amore, libertà, perdono, giustizia e sobrietà. Il nonviolento – ha ancora precisato il docente – è coraggioso non perché non provi paura ma perché la sa dominare e vincere senza usare la forza. Il nonviolento è anche una persona con una grande capacità di odiare il male e amare il bene, e questa sua facoltà gli rende possibile perdonare. Il perdono infatti non è una risposta psicologica bensì un atto della volontà, che implica indulgenza per il peccatore, non per il peccato. È quindi la capacità di assorbire il male senza rifletterlo, senza rispondere col male. Ma per essere trasparenti e in grado di perdonare è necessario svuotarsi di se stessi, del proprio ego preponderante, per riempirsi di verità e di amore. La nonviolenza è infatti amore, come ricorda il termine sanscrito a-mryto, cioè non morte e quest’ultima è appunto l’amore, ovvero l’unica cosa che non muore. Se tuttavia la nonviolenza sul piano dei rapporti soggettivi è più facilmente praticabile, le cose si complicano ad un livello macrosociale.

Passando da un piano di ordine pubblico interno a quello internazionale, la teoria della nonviolenza afferma che la guerra – ovvero la reazione collettiva all’aggressione – è sempre da escludere. Mentre la violenza nelle relazioni intersoggettive è un male ma è possibile, sul piano dell’ordine pubblico esterno, del diritto internazionale, per quanto a volte sia legittimata – vedi la “guerra giusta” – è sempre un male, è massacro, è rissa terrificante. Dal punto di vista teologico la violenza collettiva è l’epifania del male, è il trionfo di satana che è colui che divide.

Oggi – ha ancora dichiarato il prof. Spadaro – le guerre sono mascherate da operazioni di peace keaping, cioè di interposizione per la pace, finalizzate apparentemente alla difesa dei diritti umani violati, ma mosse in realtà da interessi economici. C’è una violenza nascosta in queste operazioni di polizia internazionale legittimate, perché le armi, pur tecnologicamente avanzate, danneggiano e uccidono. La guerra contemporanea è altresì caratterizzata dall’asimmetria: è la guerra del piccolo Davide che può usare, tuttavia, armi batteriologiche per sconfiggere Golia. Complessivamente si vive in una condizione di conflitto, sorretta dalla teoria della “guerra preventiva”, secondo cui se il nemico ha un punto debole è meglio attaccarlo prima che diventi forte. Siamo dentro un mondo violento e il conflitto – non solo quello armato – sembra la cifra del tempo odierno.

Se la guerra è la dolorosa condizione umana generale e la pace l’eccezione – ha proseguito il prof. Spadaro –  la risposta che si può dare è lo Stato costituzionale. Non esiste infatti un solo caso di democrazia costituzionale che abbia fatto guerra a un’altra democrazia costituzionale. Nello Stato costituzionale, che ha radici religiose cristiane,  si cerca di realizzare il valore della nonviolenza. Esso, infatti, è il modo laico di tradurre il valore evangelico dell’amore del diverso e del lontano, che nelle società primitive è solo l’amore del prossimo, dell’alleato. Quando l’organizzazione dello stato si pone il problema dell’amore dei lontani, inizia a riflettere anche sulla nonviolenza. I lontani, infatti, sono i lontani nello spazio, cioè i non cittadini, ai quali si garantiscono i diritti costituzionali, mentre i lontani nel tempo sono le generazioni future.

Lo Stato costituzionale – ha concluso Spadaro – è il tentativo, umano e imperfetto, di realizzare l’ideale della nonviolenza, poiché gli Stati costituzionali non muovono guerra e non si fanno guerra tra loro. Quindi le risposte e le vie nonviolente non solo sono possibili – e lo testimoniano molti esempi concreti e casi passati alla storia – ma sono anche necessarie. O saremo nonviolenti, o la violenza ci sommergerà.

 

Vittoria Modafferi