“Dalla Sathyagraha d’ispirazione Gandhiana alle rivoluzioni colorate dell’est europeo e a quelle della primavera nordafricana del 2011”

Cosa hanno in comune delle personalità del calibro di Gandhi, Martin Luther King, San Su Kyi con le “rivoluzioni colorate” degli anni ‘90 e quelle della primavera araba? Il legame sta nella prassi della nonviolenza. I tre attivisti della lotta nonviolenta, infatti, hanno esercitato forme di resistenza non armata, influenzando poi le rivoluzioni dell’Est europeo e quelle nordafricane dei nostri giorni. Il fil rouge che lega il pensiero e le pratiche ispirate alla nonviolenza, nelle diverse esperienze storiche in cui si sono realizzate, è stato analizzato da Francesco Macheda – dirigente della Provincia di Reggio Calabria – durante una lezione all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.

All’origine del pensiero gandhiano – ha esordito Macheda – c’è l’aspirazione a convertire il nemico verso il bene piuttosto che a combatterlo con la forza. Lo stesso termine Sathyagraha – tradotto con l’espressione “nonviolenza” – indica l’assenza del desiderio di nuocere o uccidere. C’è dunque una maniera per ottenere giustizia e democrazia attraverso forme di resistenza e di lotta non armata. Forme e metodi caratterizzati da alcune componenti, come ad esempio l’obiezione di coscienza, il boicottaggio, l’azione diretta nonviolenta, la disubbedienza civile. Circa quest’ultimo principio, Gandhi era ben consapevole che le leggi dello Stato andassero rispettate, eppure sosteneva con fermezza che se una legge è ingiusta perché contro la morale, la si può violare – anche pagando a caro prezzo questa trasgressione – dato che la coscienza morale è superiore al contenuto di una norma. Questo principio si applicò concretamente nel 1930, quando il governo britannico decise di aumentare l’imposta sul sale. Il provvedimento colpiva in modo significativo la popolazione indiana, per la quale il sale era la risorsa principale, stroncando ogni possibilità di vivere in modo dignitoso. Così Gandhi organizzò un’azione di protesta pacifica – passata alla storia col nome di marcia del sale – per dimostrare il rifiuto di sottoporsi a quella tassazione ingiusta. L’azione nonviolenta – incoraggiata da leader pacifista che invitò sempre a non rispondere all’uso della forza – si protrasse per diversi giorni e trovò impreparato l’esercito britannico, abituato a contrastare le proteste con metodi più cruenti. L’esercito inizialmente caricò la folla ma dovette poi arrendersi, dichiarandosi impotente di fronte a sistemi di lotta nuovi e vincenti. Gandhi fu arrestato ma la sua azione fece scalpore, la sua popolarità crebbe e il successo dei suoi metodi  fu riconosciuto a livello internazionale.

Nel giro di qualche decennio l’India raggiunse l’indipendenza, lanciando il forte segnale che era possibile raggiungere la democrazia senza l’uso della violenza e la forza delle armi. Alcuni anni dopo negli Stati Uniti Martin Luther King seguì l’insegnamento di Gandhi, rifacendosi al suo pensiero. L’attivista di Atlanta si impegnò a fianco della popolazione di colore, discriminata da una legislazione razzista, affinché potesse ottenere il riconoscimento di importanti diritti civili. Famoso il caso della signora Parks, un’afroamericana che si rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus a un cittadino bianco. Il gesto della Parks innescò una serie di proteste nonviolente – come il boicottaggio dei pullman nelle città del Sud – che scossero la comunità bianca abituata a godere di privilegi che ora erano messi in discussione. La reazione fu in effetti piuttosto violenta, ma Luther King rimase fermo nella pratica di azioni pacifiche, che lungo gli anni si concretizzarono in marce, disubbidienza civile, resistenza passiva. In particolare la grande quantità di persone che non reagivano ed erano pronte persino a farsi arrestare, creava problemi nell’opinione pubblica. Era il segnale che qualcosa stava cambiando e lo stesso presidente Kennedy dovette cambiare rotta, riconoscendo pari diritti alla comunità afroamericana.

Questa esperienza dimostra – ha sottolineato Macheda – che la giustizia e l’applicazione di principi democratici possono realizzarsi senza l’uso della violenza. Ciò non vuol dire che i metodi di protesta pacifici escludano l’innescarsi di ogni tipo di violenza. Anzi spesso il potere costituito reagisce con la forza e con le armi alle rivendicazioni dei manifestanti inermi. Tuttavia, con la lotta nonviolenta si ottengono risultati significativi, come l’abbattimento di regimi repressivi e l’instaurazione di sistemi democratici.

Casi emblematici sono le “rivoluzioni colorate”, espressione con cui si identificano i moti di protesta nei Paesi dell’ex Unione Sovietica intorno agli anni ’90. I tratti comuni di questi movimenti sono l’uso di una simbologia attinente ai fiori o ai colori (es: rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan, rivoluzione delle rose in Georgia, rivoluzione arancione in Ucraina) e soprattutto l’utilizzo di forme di lotta nonviolenta di ispirazione gandhiana, che sono riuscite ad abbattere alcuni regimi dittatoriali. Così le denunce di brogli elettorali, le manifestazioni pacifiche di piazza, la disubbidienza civile, il boicottaggio hanno avuto la meglio sulla forza bruta della violenza e della dittatura. E in molti casi l’apertura alla democrazia e ai suoi principi è stata una conquista di queste strategie pacifiche di lotta. Strategie che si stanno attuando anche nei Paesi nordafricani, dove la corruzione, la violazione dei diritti umani, i processi sommari e misure economiche che colpiscono indiscriminatamente, hanno innescato la protesta popolare verso il potere costituito. Purtroppo in alcuni casi come in Egitto e in Libia i regimi hanno risposto con repressioni violente e brutali.

Ma è innegabile – ha concluso Macheda – che spesso i metodi nonviolenti riescono a far crollare persino i regimi totalitari, dimostrando che i principi di ispirazione gandhiana sono ancora attuali, efficaci e persino vincenti.

Vittoria Modafferi