“Gesù è stato nonviolento?”

Il cristianesimo ha radici di violenza? In quanto religione monoteista è davvero intollerante come pretendeva il neopositivismo? E Gesù è stato nonviolento? Con questi interrogativi si è aperta la lezione tenuta da don Domenico Marturano – vicario episcopale per la cultura – all’Istituto di formazione socio-politico “Mons. Lanza”.

Il sacerdote reggino ha evidenziato che le religioni monoteiste sono state accusate nell’800 di essere fonte di intolleranza e violenza, in ragione della loro professione di fede in una Totalità esclusiva, in un unico Infinito, ovvero in un Dio unico che non lascia spazio ad altro/i. In realtà – ha affermato don Marturano – la filosofia e la cultura moderne sono ostili a questa verità lampante, dato che per loro la verità – anzi le verità – coincide con i nuovi idoli, cioè con ideologie di vario tipo (della nazione, del proletariato, del potere). La modernità ha accusato le religioni di intolleranza ma a sua volta è stata intollerante persino verso il senso religioso dell’uomo. In particolare, le religioni ritenute violente sono quelle che aderiscono a una verità rivelata – riportata in un testo sacro – proprio perché accusate di interpretare quella rivelazione in modo fondamentalista. Ciò può essere vero nella religione islamica, – Islam significa appunto sottomissione – dove ciò che afferma il Corano deve essere attuato. Il comportamento del fedele è dunque dettato dalle frasi del Corano interpretate in maniera letterale.

Per quanto riguarda la Bibbia, essendo una Parola che si incarna in una cultura di un certo tempo, va letta comprendendo le componenti culturali di quell’epoca, altrimenti si rischia di non capire ciò che Dio dice agli uomini di ogni tempo. L’aspetto maggiormente controverso riguarda la violenza che è presente in alcuni episodi del Vecchio Testamento, laddove si parla di sterminio di altri popoli. In realtà, questa idea è tipica di una cultura che vedeva coincidere la fedeltà a Dio con la distruzione di chi non gli era fedele. La violenza, inoltre, era vista come funzionale alla realizzazione di un disegno di Dio per attuare la giustizia. In quella cultura esisteva una vindicatio, ovvero la rivendicazione da parte di Dio di una giustizia legata al giusto: Dio prende le difese del giusto distruggendo il malvagio.

Nella visione culturale che adopera la violenza in funzione della giustizia rientrano due casi: la violenza contro il singolo a favore del popolo, evidente nella motivazione con cui il Sinedrio condannò Gesù; e il meccanismo del capro espiatorio, come mito della vittima sacrificale. Quest’ultimo aspetto è stato analizzato dall’antropologo francese René Girard, che ha studiato le problematiche inerenti le paure dell’uomo in tutte le culture. Girard ha notato che l’uomo per esorcizzare la paura del male e propiziarsi gli dei ha sempre offerto delle vittime sacrificali. Si tratta di persone generalmente marginali, incapaci di difendersi da sole, ma che salvano la situazione, si sacrificano per la società e pagano per tutti.

Questa visione culturale è rimasta valida anche nei primi decenni del cristianesimo, tanto che la morte di Gesù è stata interpretata in quell’ottica. Egli viene trattato come vittima sacrificale e capro espiatorio, in particolare da coloro che lo considerano un nemico, che covano l’odio e il rancore a causa delle sue parole dure e schiette, quasi “violente”, perché rispecchiano la verità. Inoltre, se si leggono i racconti della passione di Cristo, emerge chiaramente la violenza subita da Gesù. In quei passi dei Vangeli si percepisce lo schema della vittima di espiazione, termine che torna nella lettera di san Paolo ai Corinzi e in quella di san Giovanni. Questa interpretazione si riferisce al sacrificio ebraico offerto durante la festa dell’espiazione, quando si chiedeva il perdono per i peccati e si sacrificava un montone, che portava su di sé i peccati di tutti. In particolare i primi cristiani si riferivano al sacrificio di espiazione come uno “smascheramento” dell’avvenimento: i giudei avevano compiuto un’ ingiustizia condannando un innocente, e l’innocente gridava a Dio chiedendogli di “vendicarlo”. È quanto afferma del resto il salmo XXII, nel grido dell’innocente che domanda a Dio di provvedere a rivendicare la sua innocenza e a salvaguardarlo dalle conseguenze del male. Ed è quanto dice san Pietro quando accusa i giudei di aver ucciso il Giusto, il Signore della vita che però Dio ha risuscitato. Anche san Paolo ribadirà che Dio ha “vendicato” la morte di Cristo come solo Lui sa fare, ovvero con la Resurrezione. La croce dunque non è il fallimento di un progetto ma è la potenza di Dio che salva.

Inoltre – ha concluso don Marturano – la morte violenta può avere un significato che va oltre il meccanismo della vittima sacrificale: può essere vissuta per fedeltà al Padre e per amore, come ha fatto Gesù che donò la vita per le persone amate. La morte in tal modo viene trasformata in un atto di amore supremo, che supera la violenza, generando, dalla Croce, una nuova famiglia di Dio – non legata al sangue ma al rapporto con Cristo – che è la vera novità della storia.

 

Vittoria Modafferi