Il difficile cammino del cittadino: dai favori ai diritti, dai privilegi all’uguaglianza

Eliminare i privilegi e affermare i diritti. Questo è il difficile cammino che deve percorrere il cittadino. Cammino finalizzato ad abolire i favori per realizzare i diritti, fra cui quello all’uguaglianza. Ma in cosa consiste l’uguaglianza in uno stato democratico, e quali obiettivi tende a conseguire? Di questi aspetti si è occupata la lezione di Antonino Spadaro – docente di diritto costituzionale presso l’Università Mediterranea – svolta all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.

Il prof. Spadaro ha rilevato come, spesso, dobbiamo ricorrere ai favori, rivolgerci a persone conosciute per ottenere trattamenti o prestazioni che ci spetterebbero, invece, di diritto. Quindi, per essere veramente cittadini e dunque uguali dobbiamo rimuovere i privilegi, che consistono in una normazione ad hoc per una persona o categorie di persone. Se l’uguaglianza è un valore fondamentale in democrazia, tuttavia, non deve essere assolutizzato, altrimenti diventerebbe tirannico. L’egualitarismo, che è l’estremizzazione dell’uguaglianza, consiste nell’affermare che siamo tutti uguali in tutto. Ma questa posizione comporta un appiattimento delle disuguaglianze, ed è, inoltre, smentita dai fatti. Ogni essere umano è per natura diverso dall’altro, pur essendo  uguale all’altro per dignità. Il credente direbbe che siamo uguali perché figli di Dio e quindi fratelli; l’ateo che siamo uguali perché dotati di razionalità ed intelligenza. Nonostante la grande differenza, siamo accomunati dalla dignità.

La vera uguaglianza – ha precisato Spadaro – sta nel rispetto integrale delle assolute differenze. E quindi l’obiettivo del principio di uguaglianza è difendere le differenze, ovvero far sì che ognuno sia se stesso fino in fondo, così com’è, nella sua diversità rispetto agli altri. Ma come si attua, concretamente, tutto ciò? La Costituzione italiana all’articolo 3 afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (principio di uguaglianza formale), senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. In questo enunciato è evidente il principio di non discriminazione, esplicato in sette clausole di divieto. Se ci fosse, per ipotesi, una legge che discrimina i cittadini in base al sesso, questa norma violerebbe il principio di uguaglianza e sarebbe in antitesi con la Costituzione. L’aporia si risolverebbe con la dichiarazione di illegittimità della legge che sarebbe abrogata.

Difficilmente – ha osservato il docente – nella realtà si trova una contrapposizione così netta. Accade invece che l’uguaglianza viene violata in modo più subdolo, perché le disuguaglianze sono nascoste e necessitano di essere svelate. Una ipotesi: una legge prevede, per partecipare a un concorso, una serie di requisiti che di fatto escludono e discriminano le donne, violando l’uguaglianza. Il soggetto che si sente discriminato può rivolgersi al giudice e costui solleva la questione di incostituzionalità alla Corte Costituzionale. Questa può dichiarare incostituzionale la norma in questione perché è irragionevole, manca, cioè, di buon senso. Altre volte una legge può essere irragionevole per incongruità mezzi-fini. Ciò si verifica per es. se una norma premia gli studenti universitari meritevoli ma poi nei fatti stanzia allo scopo una somma esigua. In tal modo molti studenti, pur meritevoli, non possono fruire del beneficio.

Proseguendo nella lettura dell’articolo 3 della Costituzione – ha puntualizzato Spadaro – si noterà come esso vada oltre la semplice uguaglianza formale. Il diritto, infatti, deve realizzare la giustizia che è qualcosa di più della legalità. La diversità, infatti, esige un trattamento diverso e l’uguaglianza vera è trattare tutti secondo i bisogni di ciascuno. Il secondo comma dell’art. 3, allora, si propone di realizzare l’uguaglianza sostanziale, affermando che lo Stato si assume il compito di rimuovere quegli ostacoli che rendono diversi i cittadini e impediscono di realizzare innanzi tutto l’uguaglianza formale. L’istituto dell’avvocato d’ufficio, ad es., è il tentativo di eliminare un ostacolo che impedirebbe al non abbiente di difendersi in processo, ed essere un cittadino con gli stessi diritti degli altri. In altre parole, l’obiettivo del secondo comma è l’uguaglianza di risultato: permettere cioè che si verifichi anche una uguaglianza nelle posizioni di arrivo. E per giungere a ciò, è necessaria una effettiva uguaglianza nelle condizioni di partenza, o “uguaglianza delle opportunità”.

Come si realizza l’uguaglianza di risultato? Solo attraverso una modifica delle posizioni di partenza, favorendo chi è svantaggiato, e violando, di conseguenza, l’uguaglianza formale. Se ad una gara di velocità partecipassero un corridore giovane e uno anziano, quest’ultimo sarebbe svantaggiato se partisse dalla stessa posizione del giovane. Quindi bisognerebbe dargli un vantaggio in partenza per farlo giungere al traguardo. Un esempio reale di violazione dell’uguaglianza formale per realizzare quella sostanziale viene dagli Stati Uniti, dove sono state elaborate le “azioni positive”. Si tratta di un intervento di favore per alcuni soggetti o categorie, come è avvenuto qualche decennio, quando si è assicurata una riserva di posti all’università per gli afroamericani. Questa tutela, tuttavia, presenta dei problemi perché, beneficando alcuni, potrebbe discriminare ed escludere altri. Quindi per ovviare al limite dell’azione positiva è indispensabile mettere un tetto temporale: quando non c’è più necessità di aiutare certe categorie, l’azione positiva deve cessare.

Come ben si capisce – ha concluso Spadaro – il problema dell’uguaglianza è molto delicato e di difficile attuazione. Ma non per questo le democrazie devono abdicare al compito di realizzarla.

Vittoria Modafferi