“Il diritto alla resistenza nella dottrina sociale della Chiesa”

A volte ubbidire a una legge, è un atto che va contro la propria coscienza. In questi casi, si può essere buoni cittadini pur rifiutando di aderire a una norma che contrasta con principi morali o convinzioni religiose?

È un’annosa questione, che si è dipanata con modalità diverse nel corso della storia. Il diritto di resistenza, o obiezione di coscienza, è sempre più rivendicato e praticato all’interno degli Stati. Ma i legislatori nazionali sono piuttosto cauti nel legittimarlo. E la stessa dottrina sociale della Chiesa ha sviluppato con  prudenza la sua riflessione in proposito.

Francesca Panuccio – avvocato e docente di diritto privato comparato presso l’Università di Messina – ha approfondito il tema in un incontro alla scuola di formazione politica “Monsignor Lanza”. La docente ha  delineato un chiaro profilo dell’evoluzione del “diritto di resistenza”, nel nostro ordinamento giuridico e nel magistero ecclesiale. La sua analisi dei documenti più recenti della dottrina sociale ha messo in luce come il tema della resistenza sia collegato all’autorità politica e al bene comune. Sebbene questa facoltà assuma connotati diversi nei vari pronunciamenti ed encicliche, in linea generale il Magistero afferma che è lecito resistere all’autorità qualora essa violi ripetutamente il diritto naturale. Infatti, di fronte a disposizioni che chiamano a collaborare ad azioni moralmente cattive, il cittadino ha l’obbligo di rifiutarsi. E il suo diritto all’obiezione di coscienza deve essere salvaguardato. La dottrina sociale della Chiesa, ritiene opportuno, cioè, che il diritto di resistenza non debba danneggiare chi decide di opporsi a leggi moralmente ingiuste, attraverso tutele sul piano legale, disciplinare, economico, professionale.

Nel suo excursus storico, la Panuccio ha rilevato come già Leone XIII nel 1893, abbia sollevato il problema, prevedendo la possibilità di resistere a leggi ostili alla religione o contrarie al bene comune. Posizione piuttosto “avanzata”, quella del Papa, soprattutto quando asseriva che non esiste una obbedienza illimitata a qualsiasi disposizione legislativa. Un ulteriore passo avanti viene fatto da Giovanni XIII, quando, nella Pacem in Terris (1963), afferma che «nessuno può obbligare gli altri interiormente […]; l’autorità umana può obbligare moralmente solo se è in rapporto con l’autorità di Dio».

Da ciò deriva che se l’autorità è in contrasto con la volontà di Dio, le sue leggi non hanno la forza di obbligare la coscienza, che, anzi, deve resistere a quello che è diventato un sopruso. Compito dell’autorità politica, invece, è riconoscere, rispettare e promuovere i valori umani e morali essenziali, elementi di una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo. Se in Paolo VI il tema si presenta come lotta contro il tiranno, cioè come possibilità di opporsi all’ingiustizia quando diventa oppressione, il documento conciliare Gaudium et Spes (1965), non incita alla resistenza, ma richiama alla collaborazione tra cittadini e autorità. Quest’ultima, però, non deve andare oltre le proprie competenze, altrimenti «è lecito difendere i propri diritti e contro gli abusi dell’autorità, e nel rispetto dei limiti derivanti dalla legge naturale e dalla legge evangelica».

Tuttavia, è solo con l’enciclica Donum vitae (1987), che si enuncia il diritto all’obiezione di coscienza, laddove la legislazione civile sia «incapace di garantire quella moralità che è conforme alle esigenze naturali della persona umana e alle leggi non scritte impresse dal Creatore nel cuore dell’uomo».

E il documento Evangelium vitae (1995) dichiara che «rifiutarsi di partecipare a commettere un’ingiustizia è non solo un dovere, ma anche un diritto umano basilare». Siamo di fronte a un esplicito riconoscimento del diritto di resistenza, le cui modalità di esercizio sono espresse nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa del 2004. Qui si legge che i cittadini «quando sono chiamati a collaborare ad azioni materialmente cattive hanno l’obbligo di rifiutarsi». È evidente che la dottrina sociale considera il diritto di resistenza – o obiezione di coscienza – come un rifiuto dell’individuo di compiere atti prescritti da leggi di diritto positivo, ma «contrarie alle esigenze dell’ordine morale, ai diritti fondamentali della persona o all’insegnamento del Vangelo».

Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, qual è il fondamento dell’obiezione di coscienza? «Indubbiamente – afferma la Panuccio – la legittimazione è nella legge di diritto positivo che la prevede. Nelle leggi speciali che disciplinano materie delicate e complesse, c’è un articolo che consente all’obiettore di opporsi. Tuttavia, non si pratica l’obiezione di coscienza solo perché c’è una legislazione che lo permette. È una interpretazione legittima, ma riduttiva. In realtà, consiste nell’affermare il primato della coscienza nei confronti dell’autorità e della legge. È la rivendicazione del diritto del singolo di valutare se ciò che gli viene chiesto è compatibile con i principi morali a cui sente di ispirarsi. In altre parole, non è solo negazione di un ossequio a una legge, ma è adesione a un convincimento ben più profondo. Infatti, l’obiettore spesso non contesta la legittimità dell’autorità, e per questo accetta la sanzione, ma è piuttosto teso a dare la sua testimonianza circa l’adesione profonda a una legge più alta. Il cittadino che la pratichi, non deve, tuttavia, subire danni dal punto di vista sociale ed economico, né sanzioni penali: ecco la necessità di una norma che ne legittimi l’esercizio. Il legislatore, da parte sua, riconoscendo l’obiezione di coscienza, impone spesso un comportamento alternativo alla prestazione imposta dalla legge, come ad esempio, il servizio civile in alternativa a quello militare.

Oggi – ha concluso la Panuccio – il diritto all’obiezione di coscienza lo si ritrova in molti documenti, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, al Patto internazionale sui diritti civili e politici, alla Convenzione europea. La Risoluzione del parlamento europeo del 1994, riconosce l’obiezione di coscienza come un diritto soggettivo che deriva dai diritti dell’uomo e dalle libertà fondamentali».

 

Vittoria Modafferi