“Il diritto amministrativo come limite al potere”

I segnali nel nostro Paese sono contraddittori. Da un lato, continua il processo di riduzione della sfera pubblica. Dall’altro, cresce l’intervento dello Stato a sostegno delle imprese e delle famiglie in difficoltà. I periodi di crisi economica, infatti, determinano i maggiori sconvolgimenti nei sistemi istituzionali. Ecco perché oggi viviamo una stagione di ripensamento delle teorie liberiste. E assistiamo a un’espansione della presenza degli Stati nazionali nell’economia. Di queste tendenze opposte si è occupato la lezione di Francesco Manganaro – ordinario di diritto amministrativo presso l’Università Mediterranea di Reggio – durante una lezione alla scuola di formazione politica “Monsignor Lanza”. Il tema dell’incontro si è focalizzato sul diritto amministrativo come limite al potere, partendo da una riflessione sull’evoluzione degli Stati moderni per arrivare ai nostri giorni.

«A fine ‘800 – ha dichiarato il docente – non esisteva un vero potere amministrativo né una struttura organizzata per la gestione degli interessi pubblici (la burocrazia). I sistemi istituzionali europei prevedevano un monarca assoluto che per governare le province vendeva le cariche. A poco a poco, quel potere venne limitato prima dalle Costituzioni, e poi dalle elezioni dei parlamenti nazionali.

Tuttavia, il limite reale al potere del sovrano e delle amministrazioni venne dal diritto amministrativo, che regola il potere attribuito dalla legge alle stesse amministrazioni. Si tratta della prima forma con cui il potere pubblico è condizionato. Gli attuali ordinamenti europei continentali – tra cui quello italiano – riconoscono il diritto amministrativo come la regola speciale delle amministrazioni pubbliche. Questo attribuisce alle amministrazioni la forza di curare l’interesse pubblico, ritenendo che sia prevalente rispetto agli interessi dei soggetti individuali. D’altra parte, la regola posta dal diritto amministrativo costituisce un argine al potere».

La discussione del professore Manganaro si è poi spostata sul dibattito apertosi nello scorso decennio circa l’opportunità di privatizzare alcuni settori pubblici.

«Dal 1990 in poi – prosegue Manganaro – in Italia si parlò di riduzione della sfera pubblica. Era opinione comune che l’azione amministrativa fosse un peso, la pubblica amministrazione un fardello, e chi curava l’interesse pubblico era malvisto. Si disse che la sfera pubblica non era in grado di realizzare l’interesse delle persone, ed era altresì un ostacolo per le imprese e per i privati. L’intervento dello Stato in economia non faceva altro che appesantirla, invece che aiutarla. Per tutta risposta, si attuò il processo di privatizzazione di grandi enti pubblici, sottraendo interi settori al controllo dello Stato. Che diventava semplicemente “Stato regolatore” o “banditore”: poteva, cioè, gestire un certo settore, ma si ritirava dalla produzione in proprio di beni e servizi. Il mercato doveva regolarsi da sé, senza intervento statale e grazie allo snellimento della burocrazia.

Dal 1990 al 2001 l’ordinamento giuridico amministrativo perseguì la riduzione della sfera pubblica. È di quegli anni la riforma degli enti locali, in cui si prevede la possibilità che i servizi pubblici siano dati in gestione a società miste. Nel ’93, inoltre, l’impiego pubblico venne privatizzato; e nel 2001 fu sancito il principio della sussidiarietà orizzontale: gli enti pubblici entrano in gioco solo quando i privati non riescono a produrre certe attività o servizi. Cessa così l’idea di un servizio pubblico che abbia un valore sociale. Inoltre, la sottrazione di alcuni servizi allo Stato, può costituire un limite alla gestione degli stessi servizi. Se questa è la fotografia del processo di privatizzazioni, essa si completa con l’attribuzione ai privati di alcune funzioni pubbliche. Pensiamo ad esempio a tutto il sistema di certificazione della qualità delle imprese, che avviene tramite soggetti privati. Inoltre, a proposito della tutela dell’ordine pubblico – funzione per eccellenza attribuita allo Stato – il disegno di legge attualmente in esame al Parlamento prevede che i privati possano affiancarsi alle amministrazioni per garantire la sicurezza dei cittadini. Il quadro del nostro Paese è caratterizzato da un ordinamento che tende a privatizzarsi e cerca di snellire la burocrazia.

D’altra parte, tuttavia, è opinione diffusa che lo Stato debba garantire il finanziamento alle imprese nazionali e sostenere lo sviluppo. In questo periodo di crisi economica, gli Stati nazionali hanno un nuovo rilievo e allargano la sfera pubblica. In questo contesto, l’esercizio del diritto delle pubbliche amministrazioni può costituire un limite ai poteri forti a vantaggio dei deboli. Il diritto amministrativo, infatti, deve essere un diritto dell’uguaglianza, che tende a riequilibrare la società. I principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza, hanno bisogno di essere tradotti in azioni amministrative che la concretizzino. Il riconoscimento dei diritti resta limitato, se non c’è un soggetto amministrativo in grado di realizzarlo. Non è cancellando le amministrazioni che si garantisce l’uguaglianza. Anzi, questa operazione comporterebbe l’aumento dei poteri forti. È migliorando la qualità dell’azione amministrativa, che si può riequilibrare la società.

Le azioni positive per lo sviluppo sociale possono essere fatte dalle amministrazioni, a patto che non siano un peso per le comunità in cui operano, e che garantiscano equità.

Oggi c’è realmente bisogno di un potere amministrativo forte e sano che regoli l’esercizio delle funzioni, e che curi l’interesse pubblico, arginando il potere dei forti».

Vittoria Modafferi