“L’urlo incantatore e famelico del potere e il silenzio disperato e inerme degli esclusi”

Cosa accade al potere politico se viene privato di autorità? Diventa prevaricazione, arbitrio, costrizione che mortifica. Anche quando si basa sul consenso. Perché potere e consenso, nelle democrazie, sono interconnessi.  E quando il potere è ‘perverso’, è anche perchè esso è sostenuto, consapevolmente e/o inconsapevolmente, da un consenso divenuto ‘complicità oscena’. Ecco perché occorre un’attenzione particolare ai percorsi di formazione politica dei cittadini e alle strategie di costruzione del consenso.

Lo ha ribadito Giovanna Cassalia – docente di antropologia filosofica presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Reggio Calabria – durante una sua lezione alla scuola di formazione politica “Monsignor Lanza”.

Punto di partenza della sua analisi, è l’associazione dei termini autorità e potere, spesso usati in modo improprio ed equivoco. “Non si ‘ha’ autorità, e non si ‘è’ autorità. L’autorità non si possiede né si attribuisce. Essa “si riconosce’ a chi è ‘autorevole’. A chi è autore e promotore di una relazione che e-duca, fa uscire da una condizione di minorità, aiuta la crescita in umanità di tutti i soggetti della relazione. L’autorità ha a che fare con la libertà e la verità – ha proseguito la Cassalia. Ecco perché il potere, strumento visibile dell’autorità, dovrebbe essere orientato ad aprire spazi e cammini di effettiva liberazione della comunità sociale e politica, in fedeltà all’uomo e alle sue istanze di piena umanizzazione. Anche attraverso la costrizione, quella che giova, però. Ma se il potere si scioglie dall’autorità come sua fonte, allora tradisce quelle istanze e si traduce facilmente in mera potenza, costrizione che mortifica.

E le ingiustizie e le disuguaglianze crescono.”

La docente si è poi soffermata sulla complicità che si stabilisce in modo naturale tra potere politico e consenso. Complicità positiva, se il consenso è maturo, libero, vigile – la vigilanza è il sale della democrazia viva. ‘Complicità oscena’, se il consenso è inteso unicamente  ad  alimentare pratiche di connivenza finalizzate a soddisfare interessi personali o di parte. Avallando politiche che perseguono finalità contrarie o lontane dal bene comune.

Una riflessione sul tema del consenso e il carico di responsabilità politiche ed etiche che esso porta è quanto mai necessaria, perciò. Anche per le particolari modalità con cui ormai il consenso si forma. Modalità affidate a riti e liturgie oggi particolarmente raffinati e scientificamente studiati e somministrati per creare fascinazione, seduzione e sedazione di massa. Col rischio, per nulla remoto, di ridurre allo stato di “stupidità collettiva”  (Bonhoeffer).

“Così – ha detto ancora la Cassalia – l’indifferenza, la rinuncia all’esercizio di una ragione informata e critica, il mancato allenamento ad uno sguardo politico virtuoso, lungo, ampio e acuto, svuotano il consenso della sua funzione di compartecipazione attiva e responsabile alla vita politica e lo rendono complice della perversione del potere politico.

Usare il consenso per elargire e ottenere favori personali o di parte, e difendere privilegi; disattendere – spesso impunemente e disinvoltamente, anche da parte di chi le stabilisce –  le regole del  gioco politico; elevare la furbizia a valore, anche in ambito politico; lasciare che si consolidi sempre più la prassi di farla franca; ricorrere  sistematicamente alla menzogna – che peraltro non suscita più indignazione, ma viene ritenuta naturale e perciò ineliminabile complemento del confronto democratico: tutto ciò impedisce che il bene comune, pure  ripetutamente declamato in comizi e convegni, entri nella prassi politica.

In tutto questo ci sono connivenze, dirette e indirette, e nessuno può chiamarsi fuori da responsabilità, sia pure di diverso ordine, grado e natura. Non fosse altro che per non aver compreso forse che le varie e fantasiose forme manipolatorie del consenso attecchiscono e crescono nel terreno debole e acritico dell’ignoranza, di chi ‘non vuol’ sapere come stanno le cose. Da qui il dovere di capire, di conoscere, anche per essere in condizione di esercitare un efficace e non addomesticato controllo su coloro ai quali  viene conferito il potere di rappresentanza politica. Per evitare che esso diventi abuso, arbitrio, e venga usato contro chi non ha voce.”

Anche la paura, con la conseguente – sacrosanta – domanda di sicurezza, può costituire terreno propizio per manipolare  e orientare  il consenso. Tutto ciò che minaccia la stabilità, che spiazza le certezze e mette in questione assetti ben consolidati – d’ordine sociale, economico, religioso, culturale –  genera paura e destabilizza, mette fuori gioco. Sul piano politico – che qui interessa – la paura dell’inedito può, da un lato, provocare disorientamento, stordimento, rendere ‘sonnambuli’. Dall’altro lato, però, segnala, la paura, che ci si è accorti che esiste altro e che il mondo è abitato anche da altri.

Di fronte a ciò, gli sbocchi possono essere opposti. Se la paura  fa vedere  la propria vita sempre e solo insidiata da ogni altro-inedito o dall’altro-nemico-concorrente da neutralizzare, allontanare, eliminare, allora lo sbocco è la xenofobia, il razzismo, il fondamentalismo religioso. Si cercano protezioni. E il consenso si orienta verso chi adotta politiche conseguenti. L’altro sbocco possibile è di far seguire alla percezione del limite – percezione favorita dall’irrompere dell’altro nelle esistenze ‘accomodate’ dei singoli e della società  – la disposizione ad accogliere le novità, riorganizzando l’esistenza personale e la convivenza collettiva secondo percorsi e dinamiche politiche aperte, solidali, conviviali – nella misura di volta in volta realmente e ragionevolmente  praticabile.

Questo induce a ragionare sulla necessità di creare un ordine politico capace di tendere l’orecchio per cogliere l’invocazione soffocata, disperata e impotente degli esclusi. Di vigilare e lavorare perché attraverso la buona politica anche i reietti, gli indigenti, gli esuberi, gli improduttivi siano visti, sentiti, ri-conosciuti e ri-ammessi al convivio della storia. Quella italiana, quella europea, quella mondiale.

“Utili e doverosi, allora, – ha concluso la Cassalia – sono la critica, il dissenso, la resistenza, quando servono a smascherare e prendere le distanze da quel potere politico che opprime, discrimina, esclude, produce e tutela privilegi, beffandosi dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Resistere significa allora innervare la politica di una coscienza permanente – individuale e sociale – capace di salvaguardare lo spazio della feconda vigilanza partecipativa, tanto necessaria in un mondo in cui spesso ci si muove sterilmente, da sonnambuli, appunto».

Vittoria Modafferi