Perché i cristiani devono impegnarsi nel sociale? Qual è il motivo per cui tale impegno fa parte della missione profetica della Chiesa? Mettendo al cuore della sua conversazione questi interrogativi e le relative risposte, p. Giovanni Ladiana – superiore dei gesuiti di Reggio Calabria – ha concluso il ciclo di incontri svolti all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”. A volte – ha esordito il religioso – si pensa che l’impegno sociale o politico, in senso lato, di un sacerdote sia una stranezza o un’indebita intrusione, perché ambiti di competenza dei laici. Ma per quale ragione essi sono chiamati a farlo? Per capirlo bisogna chiarire cosa si intende con la parola missione.
Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli di andare in tutto il mondo e annunciare il Vangelo. Missione, dunque, significa che Qualcuno, a cui si riconosce autorevolezza, affida a chi ha chiesto di essere Suo discepolo, un compito a cui si ha il dovere di obbedire. Perché, se non si ubbidisce, non solo non si svolge quel compito, ma lo si contraddice. Anche Gesù riferendosi alla Sua missione ha affermato che doveva compierla, perché essere Figlio del Padre significava amare fino in fondo, e se non ci avesse amati così, non avremmo visto il Padre e la nostra salvezza. Essere cristiani, allora, è una risposta all’incontro con Qualcuno, da cui scaturisce il desiderio di mettere la propria vita al servizio di ciò che Lui ha detto e ha fatto.
Così la missione – intesa sia come sforzo per l’evangelizzazione, che come impegno sociale, cioè prendersi cura di coloro che sono “diminuiti” di vita – non è un atto lasciato totalmente alla libera scelta del cristiano. Né si tratta di una indebita intrusione di preti o laici dotati di una certa sensibilità. È piuttosto una necessità, tanto che il cristiano che non si occupa del sociale non ubbidisce al compito che gli è stato affidato. E chi ha sperimentato concretamente l’impegno nel sociale, specialmente con i poveri, sa che ha visto Dio in loro, e ha fatto un’esperienza mistica, ovvero di relazione personale con Lui.
Padre Ladiana ha poi riflettuto sulla figura e il compito dei profeti biblici, che non hanno temuto di dire ciò che dava fastidio ai potenti, pagandone le conseguenze con la vita. La loro missione profetica consisteva nel dire le parole salvifiche di Jahvé all’umanità, nel contesto in cui si trovavano. Essi, inoltre, hanno messo attenzione al fatto che in tempi di crisi la preoccupazione maggiore è cercare la soluzione per uscirne. Ma il profeta, invece, quando si rende conto che un mondo è finito, interroga la Parola che ha ascoltato per leggere la situazione alla sua luce. Geremia, che anche Gesù ha letto durante tutta la Sua vita, vivendo nel periodo più duro e più brutto, si è reso conto che il buio non dipende da ciò che c’è fuori di noi ma da come lo guardiamo.
Come guardiamo il mondo quando diciamo che è buio: con gli occhi di Dio o con le nostre disillusioni? E di fronte alla distruzione di Gerusalemme e alla deportazione del popolo, quando tutti pensavano che Jahvé fosse uscito dallo loro storia, Geremia si è domandato cosa aveva consentito ai Padri di avere fiducia anche nei momenti difficili. Ebbene, era stato il rapporto personale con Dio, quel Dio talmente importante che se anche tutto il mondo fosse crollato, la loro fiducia non sarebbe crollata. Infine, il profeta biblico è colui che ha guardato tutte le realizzazioni umane senza essere soddisfatto da alcuna, perché il metro di misura di qualunque realtà è l’Oltre, il “di più” di ciò che si può vivere, capire e realizzare. Egli però non si è limitato a denunciare le realtà che ha visto ma ha annunciato anche la salvezza.
Vittoria Modafferi