Scandali, inefficienze e corruzione hanno spesso fatto vedere il volto “malato”dell’amministrazione. E c’è persino chi ne auspica la soppressione. Ma l’altro volto delle pubbliche amministrazioni è l’ordinato sviluppo del territorio, la sanità, le scuole. «Buttare tutto a mare perché la burocrazia non funziona bene sarebbe una mossa azzardata». Così Francesco Manganaro – docente di diritto amministrativo all’Università Mediterranea – ha iniziato la sua lezione all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.
Gli Stati moderni – ha proseguito il docente – sono nati e si sono retti su un corpo di persone che cura professionalmente l’interesse pubblico. Questa idea, portata all’eccesso, ha sviluppato una concezione di amministrazione chiusa, che fa del segreto l’arma del suo potere e considera i cittadini come degli estranei. Tale visione, però, è stata scardinata in Italia nel 1990, quando la legge 241 sul procedimento amministrativo diede il via ad un’amministrazione partecipata.
Questo significa, ad es., che già prima di emanare un provvedimento l’amministrazione deve avvertire il cittadino interessato cosicché egli possa intervenire preventivamente. Inoltre il principio della segretezza viene convertito in quello della pubblicità: tutti gli atti della p.a. sono pubblicati e accessibili. È chiaro che quando cambiano le regole sull’attività, mutano necessariamente anche le regole sull’organizzazione amministrativa, ovvero sui dipendenti. Dal 1923 il contratto di lavoro dei pubblici dipendenti iniziò ad essere diverso rispetto a quello dei dipendenti privati. Si riteneva, infatti, che chi curava l’interesse pubblico aveva diritto a una certa forma di trattamento giuridico. Inoltre, gli impiegati pubblici dovevano ricorrere al giudice amministrativo che regolava i rapporti tra amministrazione e dipendenti.
Il quadro cambia negli anni 90 quando comincia l’era della privatizzazione del pubblico impiego. In particolare il decreto legislativo n° 29/1993 impone il cambiamento delle regole dei dipendenti pubblici e stabilisce che il rapporto di lavoro con le p.a. in nulla differisce dal rapporto privatistico. Ciò comporta il ricorso al giudice ordinario per le controversie tra singolo dipendente e amministrazione. Mentre la parte riguardante l’organizzazione dell’ente pubblico rimane una parte speciale attribuita al diritto pubblico e quindi di competenza del giudice amministrativo. Con la privatizzazione del rapporto di lavoro il legislatore intendeva tutelare maggiormente il lavoratore davanti al giudice ordinario. Questa tutela, tuttavia, non viene realizzata e così nel ‘97 e ‘98 i decreti Bassanini attuano un’ulteriore privatizzazione: stabiliscono che anche atti di micro organizzazione si possono attribuire al giudice ordinario.
Nel 2009 la riforma Brunetta modifica in parte la disciplina sul rapporto di lavoro che viene ri-pubblicizzato. Diminuisce cioè il potere di contrattazione collettiva e si dà maggiore forza alla legge che regolamenta il rapporto di lavoro. Inoltre questo decreto legislativo introduce una serie di norme sul ciclo delle performance e sulla trasparenza e integrità della pubblica amministrazione. Questo ciclo prevedeva un lungo procedimento col quale le amministrazioni dovevano individuare l’obiettivo della struttura, l’obiettivo e le mansioni del singolo dipendente, ecc… Spettava poi al dirigente verificare che i dipendenti realizzassero gli obiettivi prefissati dall’ente.
L’intento complessivo della riforma era introdurre un modo di misurare l’attività del singolo dipendente, tralasciando però di valutare l’azione complessiva dell’organismo. Il concentrarsi sul funzionario per verificarne le performance, inoltre, ha comportato una dura reazione della struttura. Il ministro Brunetta si prefiggeva di dare ai dirigenti una certa forza contrattuale nei riguardi dei loro dipendenti. Ma i dirigenti delle pubbliche amministrazioni non sono i titolari del potere datoriale al pari di quelli del settore privato. Essi devono rispondere alla politica, e perciò sono essi stessi dei dipendenti e per di più precari. Perciò Brunetta mette a loro disposizione gli strumenti dei premi e delle sanzioni.
Le sanzioni disciplinari sono comminate direttamente dal dirigente; mentre i premi di produttività, cioè i salari accessori, che prima erano erogati a pioggia, ora possono essere distribuiti solo al 25% dei lavoratori.
Nel frattempo però la crisi economica sconvolge questo sistema, e lascia inattuata la riforma. Il ciclo delle performance, infatti, si blocca per mancanza di risorse destinate ai premi accessori. In questo contesto si inserisce la legge – approvata di recente – sulla corruzione, che è il reato di chi deve curare l’interesse pubblico. Reato che resta di difficile accertamento, poiché nella corruzione si stabilisce un rapporto segreto in cui entrambe le parti hanno avuto un vantaggio e nessuna vuole denunciare l’altra.
La legge approvata il 31 ottobre 2012 e non ancora pubblicata, prevede il distinguo tra il reato per concussione e per induzione, ma soprattutto realizza alcuni importanti parametri. Tra le misure realizzate vi è l’istituzione di un’autorità sulla corruzione pubblica, così come auspicato dall’Onu. Il nostro ordinamento ha individuato l’autorità anti corruzione in un organismo di controllo detto Civit creato già dalla legge Brunetta e a cui ora viene affidato il compito di vigilanza sulla corruzione. Ogni singola amministrazione, poi, dovrà dotarsi di un soggetto anticorruzione, con responsabilità dirigenziali.
Negli enti locali, per esempio, questa funzione sarà svolta dai segretari comunali. Inoltre questa legge predispone delle misure che aggravano la pena, che introducono dal punto di vista amministrativo rimedi interni alla p.a., che prevedono la corruzione tra privati. Ma la legge è deficitaria in alcuni aspetti: non mette in atto misure che tutelino il denunziante; e non prevede l’incandidabilità di chi è stato condannato per reati di corruzione, introducendo solo altre incompatibilità.
Complessivamente – ha concluso Manganaro – si tratta di uno strumento ulteriore per combattere la corruzione, ma le leggi e gli strumenti, pur necessari, non sono sufficienti, perché hanno bisogno di essere attuati concretamente. E a volte ciò è possibile solo grazie a una spinta dal basso, cioè a una maggiore partecipazione dei cittadini.
Vittoria Modafferi