Il processo di erosione che lo sta investendo ha una duplice provenienza. Gli attacchi alla sovranità dello Stato sono, infatti, sia di origine interna che esterna. È evidente che lo Stato moderno vive un momento di crisi. Crisi che non significa decadimento, ma processo di transizione e di trasformazione. In uno scenario globalizzato, in cui il momento economico prevale su quello politico, anche il concetto tradizionale di democrazia subisce dei cambiamenti. La lezione del prof. Antonino Mazza Laboccetta – ricercatore in diritto amministrativo presso l’Università Mediterranea di Reggio – alla scuola di formazione politica “Mons. Lanza” ha esaminato le cause della crisi dello Stato, definendo anche il terreno su cui oggi si gioca la sfida democratica.
Il docente ha chiarito che lo Stato contemporaneo sta subendo un processo di erosione della sovranità, sia sul piano interno che esterno. Un fattore di crisi proveniente dall’interno è l’emergere di organismi potenti come sindacati o gruppi industriali, portatori di interessi collettivi e non generali. Questi enti sono in grado di sedere al tavolo delle trattative e di dettare le proprie scelte. Un altro elemento di crisi è rappresentato dall’incapacità dello Stato di rispondere alle esigenze dei cittadini sul piano dei servizi. Con l’irrompere nell’ordinamento del principio di sussidiarietà verticale, le funzioni amministrative sono allocate al livello più vicino al cittadino. Così, in via generale, sono i Comuni che si occupano di garantire alcuni servizi fondamentali. Inoltre, le attività statali sono diminuite ulteriormente a causa dell’affidamento ai privati di vari servizi. Infatti, in base al principio di sussidiarietà orizzontale, si è stabilito che se il mercato può fare meglio dello Stato, è bene che sia lasciato libero di agire. Nel complesso, in questo ultimo quarto di secolo si è verificata una erosione del ruolo dello Stato, la cui crisi sembra sintetizzata dall’articolo 114 della Costituzione. Esso parifica lo Stato ad altri enti territoriali della Repubblica come il Comune, la Provincia, la Regione, qualificandolo come uno degli elementi costitutivi.
Accanto a questi fattori di crisi se ne aggiungono altri provenienti dall’esterno. Come l’emergere di organismi sovranazionali o internazionali che incidono sulla sovranità dello Stato, imponendo finalità, limiti, condizioni. Basti pensare al vincolo esterno dell’euro imposto dal Trattato di Maastricht. Si tratta di scelte effettuate al di sopra dello Stato, che però lo condizionano nello spazio in cui si esprime la sua sovranità. Anche la funzione tradizionale di battere moneta – che era un elemento caratteristico degli Stati nazionali – è venuta meno con l’affermarsi dell’Unione Europea, mentre la politica dei tassi d’interesse è decisa dalla BCE. Persino la leva fiscale è condizionata da decisioni che non sono prese dagli Stati sulla base di un processo democratico che viene dal basso. Questo dimostra come ci sia un processo di erosione della sovranità e un cambiamento del ruolo dello Stato. Che non è più un soggetto attivo dell’economia – come succedeva con la politica delle partecipazioni statali o con la pianificazione – ma è un semplice arbitro del gioco o regolatore, che stabilisce procedure e non fini, per regolare i fenomeni economici. Oggi, infatti, le decisioni economiche passano attraverso organismi indipendenti dalla politica e dal circuito democratico, come le Autorità indipendenti. Inoltre, l’irrompere di ordinamenti giuridici globali che sfuggono al dominio dello Stato, ne hanno messo in crisi il ruolo tradizionale. Dall’esigenza di governare fenomeni che travalicano i confini nazionali e hanno ripercussioni immediate su tutto il mondo, sono sorti questi ordinamenti, che però non possiedono i momenti fondamentali che caratterizzano la democrazia, come la si intende tradizionalmente. La struttura della globalizzazione, infatti, non è paragonabile a quella degli Stati nazionali con apparati gerarchici, ma è composta da un aggregato di organizzazioni generali e settoriali. Disposte in una rete e in una struttura molecolare dove sull’organizzazione prevalgono gli aspetti e i tratti funzionali, cioè le regole, i comportamenti, le procedure. Ecco perché non si parla di governo ma di governance della globalizzazione. Queste organizzazioni internazionali – che sono in grado di condizionare la vita interna dei vari Paesi – non hanno i tratti tipici della democrazia, come le elezioni, i partiti politici, una rappresentanza parlamentare con una dialettica tra maggioranza e opposizione. C’è indubbiamente un deficit democratico. E un prevalere del momento economico su quello politico. Lo dimostra il fatto che alcune società sono deputate a giudicare gli Stati sull’affidabilità del loro debito. Se prima l’economia teneva conto dello Stato, ora è lo Stato a dover tener conto dell’economia. Che, d’altra parte, è sempre meno legata al territorio: basti vedere la dispersione delle unità produttive in Paesi diversi, la frammentazione e la flessibilità del processo di produzione, l’emergere di imprese multinazionali.
Ma in una società dominata da queste imprese globali – si è chiesto il prof. Mazza – qual è lo spazio della democrazia? Quale il terreno su cui costruire nuovi paradigmi democratici? La sfida della democrazia – ha concluso il docente – si gioca probabilmente sul piano stesso dell’impresa. Che dovrebbe essere concepita in modo diverso, cioè non come semplice mezzo per garantire profitti ma come un bene comune. Non più mera proprietà dell’industriale ma terreno comune in cui imprenditore e lavoratore prestano la loro attività in modo diverso. Per fare ciò è necessario sviluppare una nuova cultura dell’impresa, costruire relazioni sindacali ed industriali diverse, sperimentare nuove forme di democrazia dentro l’azienda. Democrazia economica vuol dire, infatti, partecipazione del lavoratore alla vita e alle scelte aziendali, per creare un senso di appartenenza, per coinvolgerlo nelle decisioni e fidelizzarlo. Il lavoratore, in questa visione, va considerato come persona posta al centro del processo produttivo con il suo sapere e la sua attività. Mentre l’impresa diventerebbe una formazione sociale (proprio come prevede la Costituzione italiana), misura non del profitto bensì del benessere collettivo, in cui l’uomo realizza la propria personalità.
Vittoria Modafferi