Le frontiere del welfare: i servizi per i “non cittadini” (II)

Qualità dei servizi e integrazione. Bisogni degli immigrati e dinamiche di inserimento nella comunità ospitante. I complessi legami che intercorrono tra queste logiche sono stati presentati e discussi da Tiziana Tarsia – dottore di ricerca all’Università di Messina – durante una lezione presso l’istituto di formazione politica “Mons. Lanza”.

La docente ha preso spunto dal Dossier statistico Caritas 2009 per riflettere insieme ai corsisti su alcuni aspetti del fenomeno migratorio. I dati forniti dalla Caritas parlano di 4 milioni di immigrati presenti in Italia, e di una minore concentrazione in Calabria rispetto alla media nazionale. Sono numeri che non dovrebbero farci sentire “assediati”- ha affermato la Tarsia – eppure la percezione comune è quella di un’invasione di immigrati. Ma l’elemento più interessante rilevato dal documento è la presenza di un modello di integrazione italiano, affiancato da alcuni indicatori importanti. Un primo indice emerso è l’attrattività, ovvero l’insieme di componenti che rendono accattivante un luogo per i migranti. Certamente le regioni con più occasioni di inserimento lavorativo sono quelle in cui c’è maggiore possibilità di integrarsi. Però nella realtà dei fatti si nota che le zone in cui l’integrazione è più consolidata, sono i contesti di piccoli paesi per piccoli nuclei di immigrati. Badolato e Riace in Calabria sono due splendidi esempi. Gli altri indici considerati sono l’inserimento sociale (per esempio nelle scuole, per i minori) e quello lavorativo. Inoltre il dossier indica la presenza di un fenomeno detto “geografia rovesciata”. Dal punto di vista assoluto, gli immigrati sono potenzialmente più integrabili al Nord. Ma da un punto di vista relativo – cioè rispetto alle possibilità concrete esistenti sul territorio – sono integrati meglio al Sud. Questo perché nel Mezzogiorno anche la popolazione autoctona ha un livello di integrazione minore, ovvero la possibilità di accedere ai servizi non è garantita nemmeno ai cittadini italiani. C’è quindi una sorta di uguaglianza tra italiani e immigrati nella fruizione dei servizi. In quest’ottica, paradossalmente, il Sud è più capace di integrazione.

Quanto ai bisogni emersi nel dossier, si è constatata una triplice povertà: economica, abitativa e lavorativa. Se però la povertà economica è riscontata di più negli italiani (sono loro a richiedere maggiormente un contributo economico), e vi è una parità di richiesta di alloggi tra italiani e immigrati, la domanda di lavoro si fa più pressante da parte degli stranieri. Che avvertono pure il bisogno di sistemare la loro irregolarità giuridica e di imparare la lingua italiana. Un’altra urgenza rilevata con frequenza è l’accesso alle strutture socio assistenziali, che per la provincia di Reggio Calabria sono ben 54, di cui 32 in città. Siamo di fronte a strutture gestite da enti e comunità ecclesiali, di carattere residenziale e semi residenziale, rivolte soprattutto all’assistenza dei minori. La questione dei servizi ha rimandato all’analisi di un altro fenomeno – a cui è strettamente legata – quello dell’integrazione, tema su cui la docente ha a lungo interloquito con i corsisti. Si tratta di un processo lungo, tutt’altro che semplice e lineare e che non avviene in modo immediato. L’integrazione è correlata con fattori oggettivi, come l’elemento lavorativo (una persona inserita sul luogo di lavoro ha maggiore possibilità di integrarsi) o altri indicatori, quali il diritto al  voto e l’assistenza sanitaria. Ma ci sono anche fattori soggettivi che complicano ulteriormente la situazione. Ognuno, infatti, ha una sua diversità, un suo modo di relazionarsi e di interagire con gli altri.

In sociologia – ha spiegato la Tarsia – esiste un modello che è un riferimento importante rispetto all’integrazione. Si chiama modello dinamico di sensibilità interculturale, proprio ad indicare che l’integrazione è un processo, un percorso mai completamente compiuto né raggiunto una volta per tutte. Il sociologo americano Bennet ha analizzato le fasi principali che ogni persona può sviluppare nella sua vita, in base all’ambiente e alle situazioni in cui vive. Egli scinde due fasi principali, quella etnocentrica e quella etnorelativa. La visione etnocentrica colloca una cultura al di sopra delle altre, in un’ottica di dominio. In questa concezione si distinguono tre fasi: la negazione – in cui ogni etnia non riconosce l’esistenza dell’altra; la difesa – che implica un attacco anticipato, in previsione dell’assalto dell’altro (è la paura che fa percepire una sorta di assedio); e la minimizzzazione – che proclama l’uguaglianza di tutte le etnie, spostando e non risolvendo il problema. La visione etnorelativa, invece, indica un rapporto simmetrico, e mette sullo stesso piano le diverse culture. Si distinguono anche qui tre fasi: l’accettazione, che è un aspetto piuttosto statico, in cui si riconosce l’esistenza e la diversità dell’altro ma non comporta necessariamente una relazione; l’adattamento, che implica invece un movimento verso l’altro perché prevede un investimento personale, un incontrarsi con il prossimo; e infine l’integrazione che si può raggiungere (mai completamente) con un continuo mettersi in gioco.

Secondo Bennet per integrarsi e integrare sono indispensabili l’osservazione e l’ascolto. Infatti, il processo di integrazione inizia solo se si è capaci di osservare ciò che succede senza giudicare, traendo successivamente le conclusioni; e solo se si è in grado di confrontarsi con ciò che siamo e di capire così perché si agisce in un determinato modo.

I passi da fare lungo il percorso di integrazione – ha concluso la docente – sono ancora molti, e si devono muovere nella direzione dell’incontro e del confronto. Perché conosciamo davvero poco coloro che vivono al nostro fianco da tanto tempo, a volte a causa di pregiudizi e della paura che ci paralizzano.

 

Vittoria Modafferi