‘Ndrangheta, distorsioni del mercato e ritardo di sviluppo economico e sociale della Calabria

«La Calabria non decolla per un problema culturale che è anche la causa della ‘ndrangheta. Il nostro modo di essere e di agire la favorisce. Non a caso la ‘ndrangheta è nata qui: noi abbiamo la mentalità perfetta perché attecchisca e si sviluppi». Sembrano dure le parole pronunciate dal prof. Domenico Nicolò – docente di economia presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria – durante una lezione svolta all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”. Tuttavia, la sua analisi economica della situazione calabrese, e in particolare della crisi di impresa legata al fenomeno mafioso, non è priva di un anelito di speranza. Che il docente affida ai giovani, alla loro capacità di rendersi protagonisti di un cambiamento culturale indispensabile.

La mancata crescita della nostra regione, secondo Nicolò, non è imputabile solo a una sottodotazione infrastrutturale o a una dipendenza delle imprese dalla spesa pubblica. Questi fattori sono innegabilmente presenti, ma si accompagnano ad altri elementi. Le industrie calabresi sono fortemente indebitate a causa del ritardo con cui gli enti pubblici pagano i loro debiti, così le imprese sono costrette a rivolgersi alle banche, i cui interessi sul credito sono altissimi. Infatti, il denaro in Calabria costa circa l’8%, con punte dell’8,96% nella provincia di Reggio. Qui la morfologia del tessuto produttivo evidenzia la massiccia presenza di imprese commerciali, di cui ben l’81% sono ditte individuali. Si tratta di imprese riconducibili al proprietario e al suo nucleo familiare, di piccole dimensioni e con un problema di sottocapitalizzazione e di ricambio generazionale. Sono aziende restie ad aprire il capitale a soggetti che non hanno un vincolo di parentela, e questa logica blocca ogni possibilità di crescita. Se poi anche i manager sono scelti solo nell’ambito parentale, prima o poi la famiglia non avrà più risorse umane a cui attingere, con grande sofferenza per lo sviluppo. Il quadro produttivo è composto, allora, da imprese piccole per scelta, sottocapitalizzate, incapaci di crescere e lontane dai mercati più ricchi e importanti, e che operano in una realtà in cui mancano gli ingredienti utili per creare un tessuto imprenditoriale forte.

Tra di essi Nicolò ha sottolineato il “fattore culturale”. Dove c’è benessere e ricchezza, – ha spiegato – dove esiste imprenditorialità, prevalgono dei valori diffusi come il merito. Se il merito è posto al centro di una comunità, quella è una comunità in cui il seme dell’imprenditorialità – se piantato – cresce e dà frutto.  In Calabria, invece, il nepotismo e l’appartenenza a un clan o famiglia sono la regola. Anche l’operosità delle persone e la cultura del lavoro sono due elementi importanti che favoriscono lo sviluppo. Per esempio, a Maierato, a Sibari, a Rossano si è creata una cultura d’impresa che ha dato vita a distretti industriali, grazie a maestranze qualificate che operano sul territorio.

Cultura d’impresa – ha chiarito ancora il docente – vuol dire che l’auto imprenditorialità è vista come un modo per realizzarsi, ma da noi questa mentalità non è molto diffusa. L’orientamento prevalente è piuttosto il desiderio di “sistemarsi” cioè di trovare un impiego pubblico, o la tendenza a “imbrogliare” per ottenere false invalidità. Fare business, invece, significa avere una forte tensione etica, mentre in Calabria la managerialità e la passione civile come molla per l’impegno politico sono carenti. Qui si scende nell’agone politico solo per raggiungere fini personali. C’è purtroppo una cultura feudataria secondo cui il politico non è colui che risolve i problemi di tutti, ma solo di alcuni, in vista di uno scambio di favori. Questo quadro genera una mentalità che  sostiene il proliferare della ‘ndrangheta e delle collusioni tra politica e mafia. La mancanza di voglia di operare,  e la ricerca di una via comoda per sopravvivere facilmente senza lavorare, favoriscono il fenomeno mafioso.

Ma di cosa vive la ‘ndrangheta, e quali conseguenze comporta la sua presenza sul tessuto produttivo reggino? L’estorsione e l’usura sono due delle sue attività principali. Il 70% delle imprese reggine ha dichiarato di avere subito estorsione per pagare il pizzo. Chi non paga vede la propria ditta rilevata dalla ‘ndrangheta che ne diventa proprietaria. Questo provoca danni enormi all’economia, perché nessun imprenditore decide di trasferire o impiantare in loco un’industria. Non c’è rendimento, infatti, – pur alto che sia – che può pagare il rischio di subire l’aggressione della malavita. Inoltre, al mafioso le imprese servono per riciclare denaro e poco importa se hanno un margine di profitto. Quindi le imprese buone e l’economia sana subiscono la concorrenza sleale dell’azienda mafiosa, che può permettersi di vendere in perdita, e non riescono più a stare sul mercato. La ‘ndrangheta quindi deteriora l’immagine del territorio e accresce il rischio paese.

E noi calabresi, e reggini in particolare, come reagiamo a questo fenomeno? Secondo il professore Nicolò abbiamo accettato la ‘ndrangheta, ci siamo quasi assuefatti e non ci ribelliamo. Lasciamo soli i magistrati e le forze dell’ordine. La nostra mentalità è funzionale alla crescita dell’organizzazione criminale più potente e pericolosa d’Italia. Solo gli immigrati hanno avuto la forza e il coraggio di ribellarsi, come a Rosarno, dove però la partita è stata truccata e gli extra comunitari sono andati via a forza. La nostra colpa è stata quella di non esserci aperti: se avessimo favorito l’accoglienza degli immigrati e l’integrazione nella nostra società, avremmo potuto modificare la nostra cultura, a tratti troppo isolata. L’isolamento secolare di molte parti della Calabria ha portato a stagnazione e a un regresso culturale. Un popolo e la sua cultura, invece, evolvono se vengono a contatto con altre culture, e questa unione può portare a un miglioramento. Alla Calabria non mancherebbe nulla se ci fosse una mentalità diversa e se ci si aprisse. Ma senza cambiamento culturale non c’è speranza.

Tutti – ha concluso il docente – dobbiamo dare un contributo al cambiamento. I giovani soprattutto, ma noi dobbiamo toglierli dal controllo della ‘ndrangheta, il loro futuro non deve essere ostaggio di questi delinquenti. Credo però che la nuova generazione debba convincersi che attraverso il lavoro, lo studio, il sacrificio e l’impegno, il futuro che sogniamo si può realizzare.

 

 

Vittoria Modafferi