Quando il prof. Spadaro mi chiese questo contributo subito nella mia mente sono riaffiorati i ricordi legati a quelli che don FARIAS (grande intellettuale e uomo di fede reggino, al quale sono stato particolarmente legato e, tuttora, riconoscente) aveva denominato come “incontri della diaspora”[1]. Ma la richiesta ha provocato anche l’esigenza di approfondire quella che, in età giovanile, mi sembrava fosse solo una bella iniziativa e una intuizione diretta a rinsaldare legami con persone con le quali si era percorso un tratto della propria vita.
Pertanto, la testimonianza che mi accingo a portare, è frutto dell’esperienza personale; ma poiché dubito che la mia vicenda personale possa essere di effettivo interesse per voi che state ascoltando, cercherò di fare una ricostruzione del tema, che possa consentire una rielaborazione delle proprie situazioni personali al fine di consentire delle ricadute concrete. Ciò senza la pretesa di fornire un contributo “scientifico”, né tantomeno “specialistico”, non essendo questo l’ambito delle mie competenze, ma consapevole che:
- la sostanza del termine richiama momenti di vita che hanno a che fare con la nostalgia, la partenza, la lontananza, il ritorno, il non ritorno[2];
- l’esser membri di una diaspora è prevalentemente una appartenenza emozionale e di identificazione;
- il tema oggetto della riflessione odierna ha assunto via via, negli ultimi trenta anni, connotazioni molto diverse.
Una premessa. Non vorrei che questo breve intervento, che vuole offrire solo qualche spunto di riflessione, fosse etichettato come “pessimistico”. La consapevolezza acquisita nel corso degli anni, mi porta a pensare che si possano attenuare gli effetti perniciosi di alcune note tendenze che la nostra regione già da molto tempo sperimenta (consumo senza produzione; terziario pubblico; crisi dei rapporti intergenerazionali), solo capendo i fenomeni e attrezzandosi, individualmente e comunitariamente, ad affrontare in modo consapevole, adeguato e competente la “realtà” in cui si vive. Tale attività è propedeutica per poi sviluppare gli anticorpi ad alcune delle sfide (omologazione consumistica e mass-mediale) che ora anche altri territori del nostro Paese stanno vivendo con modalità analoghe a quelle della nostra regione[3].
Per certi versi quello calabrese può essere definito un laboratorio laddove alcuni significativi indicatori (ad esempio, il rapporto tra il saldo delle importazioni e gli investimenti rilevatore dell’aumento della dipendenza regionale; l’invecchiamento della popolazione; il tasso di fertilità femminile) evidenziano implicazioni sul piano dei comportamenti sociali proiettabili a livello nazionale. In una economia assistita le risorse aumentano ma, essendo la loro provenienza esterna, aumenta il rischio di una cronica e parassitaria dipendenza, di incapacità di autogestione e autopropulsione. La terziarizzazione connessa alla dilatazione del pubblico impiego, l’incremento dei redditi da attività illegali, ripropongono il paradosso di una società capace di consumare senza produrre.
[1] L. ACCATTOLI in un articolo pubblicato su “Il Regno” n. 16 del 2002 così lo ricordava “… ambientava la fede nella città, ne cercava le radici sul territorio, metteva le persone a contatto con i segni di quelle radici, collegava le persone tra loro.”.
[2] Come ci ricorda V. TETI, nel libro “Maledetto Sud”, Einaudi, Torino, 2013.
[3] A tale riguardo cfr. D. FARIAS, Esigenza di unità, Marra Editore, Cosenza, 1988, pp. 9-12.
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