“La pace come scienza. Dall’utopia alle pratiche di trasformazione creativa del conflitto”

L’espressione “scienze della pace” può sembrare frutto di un accostamento temerario, se si considera il significato che siamo soliti attribuire a questi termini. Va riconosciuto, invece, quanta strada è stata percorsa da esperienze di ricerca e azione collettiva che, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, hanno reso disponibili, in diversi ambiti disciplinari e sociali, saperi spendibili efficacemente sul terreno della gestione dei conflitti.

Lo ha affermato Vincenzo Schirripa – docente a contratto di Storia contemporanea all’Università di Messina – durante una sua lezione all’Istituto di formazione socio-politica “Mons. Lanza”. Il tema dell’incontro è ruotato appunto sulle tecniche di gestione dei conflitti, e prima ancora sul significato dei termini pace e conflitto. Il docente si è inizialmente soffermato su uno dei filoni di pensiero più fecondi in proposito, quello della nonviolenza, interpretata e vissuta da molte figure del XX secolo, di cui Gandhi è certamente la più conosciuta.

«Rispetto alla nonviolenza – ha precisato Schirripa – la stessa vicenda di Gandhi ci mette di fronte a due modi di considerarla: uno è quello della ricerca spirituale e del lavoro su stessi, l’altro è quello delle tecniche, che può poi approdare alla cosiddetta “nonviolenza strategica”. I due aspetti sono correlati, difficilmente divisibili, tuttavia va riconosciuto che la riflessione nonviolenta ha reso disponibili strumenti concreti di mobilitazione sociale spendibili anche al di là di una personale adesione a un credo nonviolento». Quanto al termine conflitto, il docente ha invitato a pensarlo non come sinonimo di violenza, che può essere uno dei modi per risolvere la controversia. Né va necessariamente collegato con le modalità violente in esso manifestate. Ma allora, considerando particolarmente i rapporti interpersonali, quando si supera la soglia della violenza? Secondo alcuni autori, una parola chiave che definisce l’oltrepassare di quella soglia è “asimmetria”.

La violenza, come spiega l’antropologa Pat Patfoort, tende a instaurare rapporti di forza che negano il riconoscimento dell’altro, ed è tale anche quando non si manifesta palesemente. Sulla parola “conflitto” grava invece un tabù culturale che rende più difficile, per ciascuno di noi, imparare da questo tipo di esperienza, che invece fa parte della fisiologia delle relazioni interpersonali e non solo. Siamo abituati a rifuggire dal conflitto, perché costa disagio, a minimizzarlo o a rimuoverlo, piuttosto che a coglierlo come occasione di apprendimento, di evoluzione dinamica del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.

Di fronte all’emergere di bisogni che sono o che semplicemente ci sembrano inconciliabili con quelli degli altri, possiamo scegliere la strada dell’esplorazione del conflitto, esercitando competenze che si possono esercitare e apprendere. E proprio la messa a fuoco dei bisogni delle parti coinvolte è un passo indispensabile per mettere a frutto le tecniche di trasformazione creativa dei conflitti.  Su un piano decisamente pragmatico, infatti, ci sono strumenti di analisi e metodi che si possono applicare all’oggetto del conflitto, e che possono affinare le soluzioni trovate tanto nelle relazioni interpersonali quanto nelle negoziazioni a livello internazionale. La trasformazione creativa dei conflitti è una pratica che tende a raggiungere la soluzione ottimale per tutte le parti coinvolte, generando valore anche per i terzi. Spesso, lo sperimentiamo nel nostro quotidiano (ad esempio nelle relazioni educative), chi entra in campo proponendosi come mediatore può intervenire pesantemente, imponendo soluzioni inefficaci perché non tengono conto dei bisogni dei contendenti. Se invece si dà modo a ciascuno di esprimere, al di là delle posizioni dichiarate, quali sono i propri reali bisogni, le parti possono approdare a una soluzione che supera l’equilibrio precedente e fa evolvere la relazione. Le competenze per la gestione del conflitto sono state oggetto di una riflessione approfondita nelle scienze psicopedagogiche e sociali, soprattutto negli Stati Uniti a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Come osserva acutamente Marianella Sclavi, «molte persone, quando sentono parlare di “gestione creativa dei conflitti”, pensano che si tratti di una scoperta recente, di uno dei molti ricettari dalle fragili basi teoriche, nati dalla contingenza e dalla moda del momento. Al contrario, si tratta probabilmente del campo nelle scienze sociali in cui si è verificato il massimo di continuità di ricerca e di cumulatività dei risultati dal secondo dopoguerra in poi».

«Oggi questa disciplina sui generis – ha concluso Schirripa – ha dispiegato un ampio potenziale di contaminazione. Le idee di autori come Lewin, Rogers e Gordon, Argyris o, su altri versanti, Alinsky e Sharp, per tacere degli italiani Capitini e Dolci, hanno influenzato indirettamente contesti sociali e professionali in cui tuttavia i loro stessi nomi, almeno nel nostro Paese, sono ben poco conosciuti. Ma le sfide che ci attendono sul terreno del conflitto sociale e della costruzione della democrazia rendono decisamente urgente riscoprirne gli insegnamenti».

Vittoria Modafferi