Le riforme economiche sbagliate in Unione Europea

Il 14 novembre 2019 il prof. Andrea Filocamo, che insegna Economia italiana e del Mezzogiorno all’Università Mediterranea, ha esposto ai corsisti dell’Istituto diocesano A. Lanza quelle che – a suo parere- sono le riforme economiche possibili, non realizzabili e sbagliate all’interno dell’Unione Europea.

Al momento i piani di riforme attuati in Europa e nei singoli Stati – in particolare in Italia – che hanno seguito i dettami dell’UE, non hanno ottenuto i risultati sperati e, secondo il docente, hanno rilevato i limiti già presenti nel progetto originario di integrazione (che avrebbe dovuto essere prima politica e poi monetaria).

I dati statistici indicano una bassa crescita economica in tutta l’area, un alto tasso di disoccupazione e l’aumento delle diseguaglianze e degli squilibri territoriali. Anche la Germania mostra un calo della crescita e a tutto ciò si aggiunge il problema dei dazi americani.

L’idea iniziale dell’Unione Europea prevedeva la possibilità di realizzare un’omogeneità della crescita dei singoli Paesi, mentre ciò a cui si dovrebbe tendere sarebbe un’Europa unita di tipo federale con una forte integrazione politico-economica e caratterizzata dalla solidarietà al suo interno.

Il Trattato di Maastricht del 1992 ebbe un’impronta chiaramente di tipo liberista, con la fissazione di rigidi parametri per entrare nell’euro (3% rapporto deficit/PIL, ecc.) e una riduzione della presenza degli interventi statali a favore del mercato libero (regole poi rafforzate con il “patto di stabilità”).

Tra le riforme “impossibili”, perché manca la volontà politica dei Paesi più forti, il docente ha indicato: l’integrazione fiscale e la mutualizzazione del debito.

La prima consentirebbe, come avviene negli USA (dove è previsto un bilancio federale in ragione del bilancio commerciale dei singoli Stati che fa scattare automaticamente un meccanismo di solidarietà), di far funzionare l’unione monetaria pur in presenza di economie molto diverse all’interno degli Stati.

Ma l’Europa ha scelto sin dall’inizio il modello debole della “convergenza fiscale”: le diverse economie devono impegnarsi per armonizzarsi e avere pari inflazione, tassi d’interesse, ecc.

Poiché non è facile che economie diverse possano convergere, molti Paesi si sono ritrovati, come ad esempio la Grecia, in situazione di forte sofferenza.

Anche la mutualizzazione del debito, per cui ogni Paese si farebbe carico del debito degli altri Paesi (la BCE acquisterebbe il debito come avviene negli USA con la Federal Reserve) non è stata ritenuta, se non in parte, una riforma praticabile.

Tra le riforme che appaiono “possibili”: la flessibilità sul deficit e la revisione dell’output gap, che implicano la possibilità di accordare una maggiore capacità di spesa agli Stati membri.

Alcuni parametri, come il calcolo del PIL potenziale, andrebbero rivisti perché sono discrezionali e non consentono ai Paesi con una scarsa differenza col PIL effettivo, di avere concessa più flessibilità di spesa senza incorrere nel rischio di inflazione.

Infine, le riforme economiche “sbagliate” sono – a detta del docente – quelle che stanno per essere approvate e che potrebbero penalizzare l’Italia: in particolare l’istituzionalizzazione del Meccanismo europeo di stabilità (o fondo salvaStati): un fondo di solidarietà europeo al quale i singoli Paesi in difficoltà possono attingere, ma solo con accordi intergovernativi condizionati dall’approvazione di rigidi programmi di ristrutturazione del debito pubblico.

Le banche e i risparmiatori italiani nell’ipotesi di ricapitolarizzazione del debito si troverebbero dimezzati i risparmi sui titoli del debito pubblico.

Anche l’unione bancaria, cioè la garanzia di livello europeo sui depositi, è un’ipotesi di riforma rischiosa per l’Italia, perché sarebbe condizionata all’eliminazione da parte delle banche dei rischi che detengono rispetto ai titoli del debito pubblico (ciò le potrebbe portarea disfarsi dei titoli italiani).

Forse l’unica proposta sensata per l’Italia sembrerebbe quella di trattare con l’Unione non per ottenere aiuti monetari, ma per mantenere bassi i tassi d’interesse.

Stefania Giordano