“Legge elettorale e protagonismo dei cittadini”

Le consultazioni elettorali sono uno dei momenti in cui i cittadini si rendono protagonisti attivi della vita politica. Costituiscono, quindi, un importante strumento di partecipazione. Dal modo in cui votano dipende, infatti, la composizione della classe politica che li rappresenta. Ecco perché accanto alla partecipazione degli elettori è determinante il sistema elettorale. Sono due aspetti fortemente connessi, con delle ricadute sociali e culturali. Pippo Paino – presidente della Cooperativa “La Nostra Valle” –  lo ha sottolineato durante un incontro svolto al Centro giovanile “V. Rempicci” di Condofuri, dedicato al tema “Legge elettorale e protagonismo dei cittadini”. Anche quest’anno il “Rempicci” ha promosso un percorso di formazione politica, coadiuvato dall’Istituto “Monsignor Lanza” della diocesi di Reggio–Bova. Relatore del terzo appuntamento, Antonino Spadaro, docente di diritto costituzionale all’Università Mediterranea.

Il professore ha immediatamente ricordato che per comprendere il funzionamento di un sistema elettorale – strumento con cui i voti si traducono in seggi – si devono guardare alcune variabili fondamentali. La prima è il tipo di collegio (suddivisione territoriale entro cui vengono eletti uno o più candidati), che può essere uninominale, se viene eletto un solo candidato, o plurinominale quando l’elezione riguarda più candidati. Bisogna poi considerare il tipo di voto, se cioè si può votare solo la lista, o solo il candidato, o entrambi, o se esiste il voto disgiunto. Altrettanto importanti sono le cause di ineleggibilità e incompatibilità e le regole relative alla propaganda, alla par condicio, alle spese per la campagna elettorale. Infine, si deve valutare il sistema elettorale in senso stretto, ovvero il meccanismo con cui i voti espressi si trasformano in seggi.

I sistemi elettorali – ha proseguito Spadaro – si dividono in proporzionali, maggioritari e misti. Il sistema proporzionale – solitamente collegato a collegi plurinominali dove si eleggono più candidati – prevede che ciascuna forza politica abbia tanti seggi in proporzione dei voti ricevuti. Questo sistema fotografa la realtà sociale e politica di un Paese, perché la rispecchia fedelmente. Se questo è un vantaggio, d’altra parte, nel caso in cui la realtà è fortemente frammentata, in Parlamento ci sarà una pluralità di forze politiche che non favoriscono la governabilità. Mancando una maggioranza consolidata non è semplice garantire un governo stabile. Il sistema maggioritario – collegato al collegio uninominale – si basa sul fondamento che viene eletto chi prende la maggioranza dei voti. Tuttavia esistono tre tipi di maggioritario, che richiedono maggioranze diversificate. Con il sistema super – majority si elegge il candidato che riceve la maggioranza qualificata dei voti: si tratta però di un caso molto difficile da realizzarsi, essendo la soglia molto elevata. Il majority secco, invece, richiede la maggioranza assoluta: è eletto il candidato che prende il 50% più uno dei consensi. Anche questa ipotesi non si verifica facilmente poiché in un collegio ci sono molti candidati e il voto è solitamente ripartito. Spesso dunque si prevede un doppio turno in cui si scontrano i candidati più votati al primo turno e viene eletto chi prende più voti. Infine, il sistema plurality prevede che nel collegio vince chi ha la maggioranza relativa dei voti. Questo vuol dire che può essere eletto un candidato con una percentuale molto bassa, rappresentando però anche la maggioranza di coloro che non lo hanno votato. In Italia il sistema elettorale vigente dal 1948 fino al ’92 è stato il proporzionale con la possibilità di esprimere delle preferenze; nel ‘92 si è passati ad un maggioritario plurality con una quota proporzionale del 25%. Era in realtà un sistema misto – ha ancora chiarito Spadaro – in cui il proporzionale serviva a rappresentare le minoranze.

Infine nel 2005 è entrata in vigore la legge Calderoli, legge apparentemente proporzionale con un eventuale premio di maggioranza. È sufficiente, infatti, che un partito abbia la sola maggioranza relativa perché gli venga assegnato il 55% dei seggi. Questa legge – ha puntualizzato il docente – ha degli evidenti difetti. Primo: non dà la possibilità di votare il candidato, ma solo la lista. La scelta di non indicare i candidati può essere considerata un’opzione etica, nel senso che le preferenze – previste nel precedente sistema elettorale – potevano favorire il clientelismo verticale, tra notabile ed elettore, corrompendo la politica. D’altra parte, però, quel sistema permetteva di votare il candidato che si stimava. Adesso, invece, l’elezione nel collegio plurinominale avviene secondo l’ordine scelto dal partito. Se una lista, ad esempio, prende quattro seggi, gli eletti sono i primi quattro della lista. Questo difetto si può aggirare attraverso le elezioni “primarie” con cui i cittadini possono scegliere i candidati di un partito. L’impossibilità di selezionare il candidato ha fatto parlare di incostituzionalità della legge Calderoli, ma in realtà la Costituzione non si esprime in merito alla questione delle preferenze. Un secondo difetto è riscontrabile nelle alte soglie di sbarramento richieste: del 4% alla Camera e dell’8% al Senato se si tratta dei partiti. Se invece i partiti si presentano in coalizione alla Camera devono raggiungere il 10% dei voti e il 20% al Senato. Come ben si capisce, si tratta di percentuali elevate che favoriscono marginalizzazione piuttosto che la partecipazione politica. E ricordiamo che spesso i partiti non rappresentati alle Camere tendono a diventare forze eversive. Altro difetto della legge in questione sono le candidature multiple cioè la possibilità per un candidato di presentarsi in più collegi, opzione di dubbia costituzionalità. Un’altra anomalia è rappresentata dal voto degli italiani all’estero, che avvenendo per corrispondenza non garantisce in pieno la segretezza del voto. Le ultime due pecche del sistema elettorale sono forse le più gravi. Innanzitutto perché non garantisce una maggioranza uguale alla Camera e al Senato: alla Camera, infatti, il premio di maggioranza è assegnato su base nazionale, mentre al Senato è assegnato regione per regione. Senza una maggioranza uguale nei due rami del parlamento la governabilità non è affatto garantita e quindi la legge non è ragionevole. Infine, il 55% dei seggi è assegnato al partito o alla coalizione che ha la maggioranza relativa, che potrebbe essere anche una percentuale molto bassa. Questo punto è il difetto più grave, perché introdurre un premio di maggioranza senza una soglia da superare, produce effetti discorsivi del processo democratico. E la stessa Corte Costituzionale, in una sua sentenza, ha dichiarato irragionevole la mancanza di un tetto minimo per l’assegnazione del premio di maggioranza.

Vittoria Modafferi