Il liberismo è di sinistra. Affermazione alquanto provocatoria formulata qualche anno fa da due economisti italiani. Alla base di questa tesi, in apparenza contraddittoria, ci sono motivi piuttosto chiari che sono stati messi in luce da Antonino Mazza Laboccetta – ricercatore in diritto amministrativo all’Università Mediterranea – durante una lezione all’Istituto di formazione politica “Monsignor Lanza”.
Il docente ha dapprima precisato che esistono varie teorie economiche, che divergono specialmente in merito al ruolo della politica nel settore economico. Il liberismo sostiene che il mercato va lasciato libero affinché raggiunga da sé il punto di equilibrio, mentre lo Stato deve intervenire il meno possibile. Il suo compito è quello di garantire l’ordine, la sicurezza e la giustizia nei rapporti interpersonali. Bastano poche regole per garantire il funzionamento del mercato, che è in grado di autoregolarsi, di produrre ricchezza e benessere. Tuttavia, l’esperienza di alcuni Paesi dimostra che politiche iper liberiste provocano disuguaglianze e sacche di povertà, accanto a una crescita del benessere per alcune categorie. Questo perché anche il mercato va incontro a fallimenti.
Le posizioni liberiste in Italia sono abbracciate da una parte dello schieramento di centro destra, che è culturalmente e politicamente disomogeneo. Vi è infatti una destra sociale che, all’opposto, crede nel ruolo forte dello Stato nell’economia. Per altri motivi, anche una parte del centro sinistra – quella vetero-comunista – è favorevole all’intervento dello Stato nell’attività economica, per orientarla e guidarla dal momento che il mercato da solo non può trovare l’equilibrio. La sinistra riformista, più moderata, crede invece che si possa restare dentro il sistema capitalistico (senza rovesciarlo con la lotta di classe) mitigandone gli effetti deleteri per le classi più svantaggiate. Paradossalmente – ha sottolineato ancora il prof. Mazza – lo schieramento di centro sinistra che non è liberista ha approvato le prime liberalizzazioni avviate durante il governo Prodi, dando una forte scossa al sistema.
Ma perché il liberismo è “di sinistra”? Storicamente i partiti di sinistra vorrebbero elevare le classi sociali più deboli. Le politiche liberiste creano concorrenza sul mercato provocando un abbattimento dei prezzi che avvantaggia anche le classi meno abbienti, perché ne accresce il potere d’acquisto. Inoltre la concorrenza stimola l’innovazione e migliora l’efficienza produttiva e il prodotto. Avere prodotti di maggiore qualità a prezzi più bassi non è contrario, ovviamente, alle classi più svantaggiate: ecco perché politiche liberiste sono di sinistra. Inoltre il liberismo abbatte le barriere in entrata, e questo aiuta il talento, il merito, l’imprenditoria, stimolando la crescita complessiva del tessuto produttivo. Qual è dunque il motivo per cui la sinistra più ortodossa si oppone alle liberalizzazioni? Perché teme che l’ondata liberalizzatrice si abbatta sul mercato del lavoro. (il dibattito acceso sulla modifica dell’art.18 dello statuto dei lavoratori esprime questa preoccupazione).
Fino agli anni ‘90 – ha precisato Mazza – si è guardato il sistema economico dal lato dell’offerta, ovvero dal lato di chi produce, e cioè capitale e lavoro. Secondo la sinistra riformista, infatti, si può modificare e migliorare il sistema accrescendo le tutele dei lavoratori, creando un’alleanza tra impresa e lavoro che provoca tuttavia la rigidità del sistema. I lavoratori venivano così garantiti attraverso contratti a tempo indeterminato, il loro salario era agganciato all’inflazione e in tal modo recuperavano il potere d’acquisto. L’impresa dal canto suo evitava il conflitto e avviava la concertazione. Questo modello ha irrigidito il sistema al punto che oggi si cerca di rovesciare l’asse, spostando lo sguardo dal modello dell’offerta a quello della domanda. Si crede, cioè, che attraverso politiche della domanda si può stimolare il sistema economico che poi sarà in grado di espandersi. Il liberismo in particolare afferma che se si abbattono le rigidità e le tutele, gli imprenditori sono disposti ad assumere, l’occupazione aumenta e il ciclo produttivo si espande ed è in grado di riassorbire, anche in altri settori, quei lavoratori che erano stati espulsi. Il dinamismo economico, in altre parole, crea crescita e benessere.
Il problema – ha sottolineato il docente – sta nel fatto che dietro il lavoro c’è il lavoratore. Il lavoro non è solo uno strumento di sostentamento bensì un mezzo di riconoscimento e di radicamento sociale, di realizzazione della persona. Il lavoro allarga la sfera pubblica, permette la partecipazione alla vita politica, civile e sociale, all’organizzazione economica e produttiva. Quindi non può essere trattato alla stregua di una merce qualunque, di un bene o servizio. Certo, anche il mercato del lavoro è un mercato, in cui però si giocano i diritti, la dignità sociale, il riconoscimento di una persona. Se dunque il lavoro diventa precario, senza garanzie, e il lavoratore che non serve più al processo produttivo può essere facilmente espulso, si crea disagio esistenziale, si perde il radicamento con il territorio che si impoverisce. Si rischia quindi di passare da un eccesso a un altro: è vero che la centralità del contratto a tempo indeterminato e un uso sproporzionato della concertazione hanno creato inefficienza, tuttavia non è corretto lasciare il mercato del lavoro privo di regole. Il mercato, infatti, non è mai fine a se stesso, è uno strumento i cui meccanismi vanno regolati.
È possibile, dunque, utilizzare il mercato per perseguire delle politiche di sinistra che guardino alle classi più svantaggiate per migliorarne le condizioni? Se di fronte a questi cambiamenti epocali la sinistra si trova spaesata, non ha una visione culturale con cui guardare le novità sociali, l’attuale governo Monti, di fronte a uno scenario davvero difficile, sta cercando di svolgere delle azioni in sequenza. Prima di tutto prosciugare l’enorme sacca di debito pubblico e poi passare alla crescita attraverso politiche di liberalizzazione e semplificazione. Senza trascurare di restituire credibilità internazionale al Paese.
Vittoria Modafferi