I nuovi proletari. Ancora lotta di classe nella società globale?

Nell’odierna società globalizzata, in cui piccole élites possiedono denaro e potere mentre la classe media e le fasce più svantaggiate si stanno impoverendo, ha ancora senso parlare di classi sociali e di lotta di classe? Intorno a questo interrogativo, e alle possibili riposte, è ruotata la lezione di Antonino Mazza Laboccetta – ricercatore in diritto amministrativo all’Università Mediterranea – all’Istituto di formazione socio politica “Mons. Lanza”.

Il docente ha ricordato che nel corso della storia ci sono sempre stati dei conflitti tra le classi, il più noto dei quali è probabilmente quello tra i lavoratori salariati e i capitalisti nella società industriale. Questo scontro, dopo la seconda guerra mondiale, si è risolto in una crescita del salario a danno dei profitti. In periodo di boom economico i consumi e il benessere sono aumentati notevolmente, i salariati sono riusciti a strappare migliori condizioni di lavoro e maggiori garanzie, come la riduzione dell’orario di lavoro, un sistema pensionistico a ripartizioni, una stabilità del posto di lavoro e forti tutele sindacali. Questa escalation è andata avanti fino agli anni ’70. Nel decennio successivo le cose sono cambiate. Il sistema produttivo è passato dal modello fordista, in base al quale prima si produce e poi si vende, a quello “just-in-time” secondo cui prima si vende, attraverso strategie pubblicitarie che stimolano i bisogni, e poi si produce. Questo nuovo paradigma produttivo ha richiesto flessibilità nel lavoro, e ha scardinato i livelli di garanzia che i lavoratori si erano conquistati in precedenza.

Dagli anni ‘80, infatti, le nuove politiche liberiste affermavano che solo il mercato poteva  allocare le ricchezze mentre lo Stato doveva progressivamente ritirarsi dall’economia. Da quel momento in poi i profitti hanno nuovamente sottratto risorse ai salari, le tutele dei lavoratori sono state messe in discussione in nome della flessibilità richiesta dal mercato. Si è entrati in una nuova fase, che viviamo tutt’ora, in cui l’economia diventa non solo globalizzata ma addirittura “finanziarizzata”.

Ciò significa – ha proseguito Mazza – che si è creata una economia di carta del tutto sganciata dall’economia reale, il cui obiettivo è produrre denaro attraverso il denaro. Quest’ultimo, infatti, non ha una ricaduta in termini di investimenti produttivi, non è impiegato nell’economia reale per far crescere la produzione e l’occupazione. Tale sistema ha mostrato tutti i suoi limiti quando è scoppiata la crisi dei mutui sub-prime negli Usa che poi ha esteso i suoi effetti sull’economia mondiale. Attualmente sono i colossi finanziari a dominare i mercati globali e le élites che dirigono le grandi corporations sono in grado di influenzare le politiche economiche e fiscali a loro vantaggio. Quindi la globalizzazione dell’economia nasconde un progetto politico -culturale di questi gruppi di potere, a danno delle classi più svantaggiate, teso a strappare ancora maggiori profitti.

In questo scenario, allora, che caratteristiche assume la lotta di classe? – si è chiesto il prof. Mazza. Alcuni osservatori affermano che tale concetto è del tutto desueto, dal momento che non esistono nemmeno le classi sociali, a causa dell’omologazione dei consumi e dei bisogni. In parte ciò è vero, ed è vero che non si può parlare di una classe omogenea con una forte coscienza di sé e dei propri diritti. Persino a livello politico mancano i partiti che rappresentano chiaramente gli interessi di una data classe sociale.

Tuttavia – ha ribadito il docente – una lotta di classe esiste ed è condotta dall’alto, cioè dalle élites, attraverso strumenti nuovi. Tra questi il più significativo è una politica fiscale che prevede sgravi fiscali a favore dei ricchi e la riduzione delle imposte a vantaggio delle società e delle imprese. L’assunto delle politiche liberiste in auge, infatti, è diminuire le tasse ai ricchi in modo da garantire loro un margine maggiore per gli investimenti, che dovrebbero aumentare la produzione e l’occupazione. Ma in realtà non succede così, perché questo margine ottenuto dalle corporations è una fetta di rendita usata nei canali finanziari e non immessa nell’economia reale.

Ecco, quindi, la coesistenza di masse enormi di capitali che si spostano facilmente da una parte all’altra del mondo,  e di tassi elevatissimi di disoccupazione. Queste politiche fiscali neo liberiste, inoltre, hanno l’effetto di essiccare i bilanci pubblici e perciò inducono gli Stati a intaccare la spesa pubblica, riducendo i servizi e i benefici per i cittadini. Un altro strumento utilizzato da queste élites economiche per condurre la loro lotta sociale – per garantirsi posizioni di reddito sempre più elevate – è la delocalizzazione delle imprese dove il costo del lavoro è molto basso. Questo fenomeno, però, impoverisce il Paese da cui si delocalizza perché lo de-industrializza, impoverendo anche i lavoratori che vedono eroso il loro potere d’acquisto. In questo sistema la classe media è sempre più risucchiata verso il basso, e va ad ingrossare le fila dei poveri. La società appare bloccata, non ha più quella mobilità che permetteva di salire la scala sociale e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.

Infine – ha sottolineato Mazza – se si leggono con attenzione le grandi disuguaglianze economiche, si può intravedere una lotta della classe media per resistere e non scivolare verso il basso; una lotta tra poveri che devono sopravvivere e non hanno più nemmeno una coscienza di classe che li faccia sentire coesi; e infine una lotta delle élites delle multinazionali e delle corporations finanziarie per difendere le loro posizioni di privilegio e di grande ricchezza, a danno della porzione più povera e svantaggiata della società.

 

Vittoria Modafferi