La democrazia rappresentativa nelle società post moderne non è più sufficiente ad assicurare che l’amministrazione sia rispettosa della legalità. Questa, infatti, dovrebbe essere garantita attraverso la partecipazione popolare. Ecco perché oggi è auspicabile il passaggio ad una democrazia partecipativa o amministrativa.
Di questo argomento si è occupato Francesco Manganaro – docente di diritto amministrativo presso l’Università Mediterranea – durante un incontro all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”. Il suo intervento si è focalizzato sulla partecipazione popolare all’azione amministrativa, con particolare riguardo alle novità introdotte dalle modifiche alla legge sul procedimento amministrativo n. 241/1990 e poi dalla recente normativa anti corruzione.
Il prof. Manganaro ha spiegato che nelle democrazie rappresentative la legittimazione democratica dell’amministrazione è garantita dal principio di legalità, in quanto l’amministrazione è sottoposta alle leggi, emanate degli organi legislativi votati dal corpo elettorale. C’è quindi una sorta di catena democratica che garantisce la democraticità dell’azione amministrativa. Oggi, però, nelle società post moderne questo criterio non è più sufficiente per diversi motivi. Una ragione risiede nel fatto che le leggi non tutelano più un interesse pubblico esattamente definito, bensì interessi tra loro contrastanti. È il caso, ad esempio, delle grandi opere pubbliche, dove l’interesse alla produzione confligge spesso con quello della tutela dell’ambiente o della salute.
Dunque, le amministrazioni hanno accresciuto il loro potere decisorio a scapito della legge; hanno maggiore discrezionalità perché interpretando la legge possono determinarne il significato ed il contenuto. Ma c’è un altro motivo per cui l’amministrazione ha ampliato i suoi poteri. La legge di privatizzazione dell’ impiego presso le amministrazioni pubbliche (d.lgs. 29/1993) ha inteso separare la politica, che dà le linee direttive, dall’amministrazione, che agisce concretamente, rappresentando la cura dell’interesse pubblico.
Quindi all’apice dell’amministrazione statale non si trova più il ministro, ovvero l’organo politico che risponde direttamente al parlamento, e indirettamente al corpo elettorale, bensì un organo tecnico. Sono, dunque, i dirigenti generali ad assumere le decisioni e a gestire l’amministrazione, mentre il ministro si limita a indicare le direttive.
Tuttavia, questa legge è un ulteriore motivo di criticità della democrazia rappresentativa. Infatti, l’amministrazione non è più nel circuito popolo-governo-amministrazione. Insomma la catena di legittimazione espressa nel principio di legalità si spezza, ove al vertice dell’ammiinistrazione c’è un dirigente tecnico. Inoltre, la società è così complessa e gli interessi così variegati e mobili che la legge non cristallizza interessi prevalenti, piuttosto li insegue senza riuscire a tutelarli tutti. L’azione amministrativa cresce in autonomia proprio perché gli interessi sono molteplici e contrastanti.
Chi garantisce allora la legittimazione dell’amministrazione? Quando l’azione amministrativa è vicina al cittadino, cioè è svolta dagli enti locali, la cessazione di quella catena rappresentativa che era valida fino a pochi decenni fa, richiede la partecipazione popolare diretta alla gestione dell’amministrazione. Questo spiega la necessità della democrazia partecipativa, accanto a quella rappresentativa in cui la partecipazione si esprime soprattutto nelle consultazioni elettorali.
Un impulso alla partecipazione –ha sottolineato Manganaro – è venuto dalla legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo e sul diritto di accesso agli atti. Questa normativa per la prima volta introduce la partecipazione all’azione amministrativa, prima inconcepibile. La legge stabilisce che possono partecipare non solo i diretti destinatari del provvedimento amministrativo ma anche i titolari di interesse diffuso, purché costituiti in comitato. Si tratta di una partecipazione davvero innovativa che incide sull’amministrazione. Intervenire nel procedimento significa, infatti, accedere agli atti, presentare memorie e documenti che l’amministrazione è tenuta a valutare, visionare le informazioni che ha assunte prima di decidere.
Si entra così in interlocuzione con l’amministrazione, le cui azioni oggi sono sottoposte al controllo diffuso dei cittadini. E questa è davvero una novità che cambia radicalmente il diritto amministrativo. Certo, spetta poi ai cittadini mettere in pratica questo controllo, partecipare e quindi utilizzare gli strumenti di partecipazione previsti dalla legge. Perché la partecipazione ha un costo, in termini di tempo e ha bisogno di essere tecnicamente attrezzata, ovvero richiede una certa competenza e preparazione. Infatti l’esperienza dimostra che la partecipazione funziona se accanto al popolo vi è il sostegno di un nucleo di esperti.
Un ulteriore impulso alla partecipazione – ha concluso il docente – è venuto dalla legge anti corruzione n.190/2012 e dai decreti attuativi. Il decreto n. 33/2013, in particolare, introduce l’accesso civico, ampliando (art. 5) in modo generalizzato l’accesso agli atti. Chiunque, si afferma, ha diritto a richiedere dati o informazioni all’amministrazione, senza dover dimostrare la propria legittimazione. E l’art. 6 stabilisce che la pubblica amministrazione deve dare accesso perfino alle informazioni, che devono essere comprensibili e semplici. L’accesso e la trasparenza comportano dunque la comprensibilità del dato: tutto ciò diminuisce l’esigenza di una certa competenza tecnica e favorisce una partecipazione più ampia. Ora spetta ai cittadini mettere in pratica quanto stabiliscono le disposizioni di legge. Gli strumenti normativi che agevolano la partecipazione esistono come già esistevano negli Statuti comunali, devono solo essere attuati.
Vittoria Modafferi