“Il paesaggio mutevole nella terra degli abbandoni”

Pentedattilo e Africo. Due paesi, due emblemi dell’abbandono. Civiltà antiche, storie millenarie, comunità insediate da secoli in un territorio, ad un tratto sono spazzate via  da eventi drammatici, come calamità naturali, ma anche interventi umani, processi culturali di lunga durata e scelte politiche. La storia dei paesi dell’Aspromonte, il loro declino e la conseguente mutazione del paesaggio sono stati l’oggetto di due lezioni svolte all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza” dal dott. Domenico Morabito – esperto in comunicazione e analisi socio-ambientale.

Le popolazioni aspromontane – ha spiegato Morabito – si sono insediate ad un’altitudine compresa tra i 300 e gli 800 metri sia per motivi difensivi che per ragioni di sussistenza: a quella quota, infatti, si poteva sfruttare il pascolo, la legna e la fertilità del terreno. Molti paesi e borghi sono sorti in seguito all’arrivo dei monaci bizantini, fuggiti dall’oriente a causa della persecuzione iconoclasta. Questi monaci, presenti con un reticolo di fondazioni diffuse, come conventi ed eremi, divennero il punto di riferimento religioso per la popolazione ellefona. Tuttavia la successiva presenza dei normanni diede un grosso colpo alla cultura greca di Calabria. Il processo di latinizzazione da loro avviato, infatti, si dimostrò un’attività incisiva che riuscì a spezzare una tradizione e una cultura antica e fiorente. La lingua greca che insieme ai monasteri, alle fiumare e al sistema produttivo, era un elemento identitario di quelle genti, iniziò un processo di declino. Se alla vigilia dell’unità d’Italia la popolazione grecofona era ancora concentrata in poche aree, nel ‘900 la diffusione della lingua italiana rese ancora più profonda la divisione con la nascente borghesia agraria proveniente dalla costa. Inoltre la dicotomia tra il proletariato analfabeta grecofono e la borghesia alfabetizzata di lingua italiana sancì la definitiva emarginazione ed emigrazione della popolazione di lingua greca.

Dunque l’abbandono dei paesi grecanici non è stato veloce e forzato ma ha conosciuto una lenta agonia, provocando anche una mutazione del paesaggio. Le aree che prima erano agricole ora sono diventate deserti verdi, dalla vegetazione spontanea bassa, qualche ulivo, case sventrate e un po’ di pascolo. Tutta la zona jonica tra i 300 e gli 800 metri oggi mostra questo paesaggio.

La decadenza di una lingua – ha sottolineato Morabito – ha abbattuto una società, che dissolvendosi ha provocato l’abbandono di una cultura, di una produttività, di tradizioni consolidate e modi di vivere. In generale l’abbandono, che porta al mutamento del paesaggio, è conseguenza di una “discontinuità”, ovvero un evento violento – che può essere storico, contemporaneo, ecologico o geologico – che interrompe uno stato iniziale e lineare della vita quotidiana. Dopo la discontinuità nel sistema dell’Aspromonte si sono creati ruderi e relitti perché è mancata una ricostruzione.

Oltre all’elemento linguistico, un altro fattore di rottura nel nostro territorio è stato il terremoto del 1783. Quel sisma ha interessato una vasta area, provocando fenomeni incredibili che hanno modificato il paesaggio. Numerosi laghi si sono creati a seguito delle frane che hanno sbarrato il corso dei fiumi. Tuttavia la violenza del sisma si è sommata ad altri fattori di origine antropica: la frana sul promontorio di Scilla – che si è abbattuta in acqua causando un imponente tzunami e la morte di migliaia di persone – è stata certamente aggravata dal disboscamento che ha reso fragile il terreno interessato.

Spesso eventi drammatici – ha ancora precisato Morabito – che sono causati dall’uomo, vengono imputati solamente alla forza bruta della natura. Talvolta gli interventi e le scelte umane incidono sulla vita e sul futuro di una comunità tanto quanto gli eventi naturali, come ci raccontano i casi di Pentedattilo e Africo.

Il paese a ridosso della famosa rupe a forma di cinque dita, fu considerato pericoloso negli anni ‘50 e fu abbandonato nel giro di pochi anni. Già coinvolto da un significativo processo di emigrazione, dopo l’alluvione del ‘58, dopo le frane – che peraltro non avevano interessato l’abitato – e il distacco di massi, Pentedattilo fu dichiarato pericoloso, la popolazione fu fatta sfollare, e si decise di costruire un nuovo paese poco più a valle. Ciò avvenne senza una vera perizia geologica, mentre i sopralluoghi del genio civile documentavano a più riprese la mancanza di un aggravamento delle condizioni che ponessero in pericolo la popolazione. Mentre paradossalmente recenti perizie sembrano confermare che il paese nuovo sia stato edificato su una presunta faglia.

Anche il caso di Africo è  emblematico di una situazione di abbandono, conseguente a una scelta affrettata e infelice. Il piccolo paese aspromontano – ha precisato Morabito – ha legato la sua storia all’attività produttiva della pece. Questa sostanza si ricavava infatti dall’estrazione della resina dalle conifere, ed era indispensabile per impermeabilizzare le navi già in epoca romana. La comunità di pastori e boscaioli, che si era installata sulle pendici dell’Aspromonte probabilmente già intorno al VI secolo d. C., ha proseguito la produzione della pece fino al 1800, quando il progressivo disboscamento ha privato la zona della sua risorsa principale. Finita l’attività estrattiva, l’unico sostentamento derivava dal bestiame, perché il terreno brullo non consentiva di mettere a dimora molte colture. Africo divenne nel 1900 un emblema della povertà e della miseria. Zanotti Bianco venendo in Calabria, trovò ad Africo delle condizioni di vita disperanti. Nel paese mancavano acqua, luce, servizi igienici, la gente viveva in promiscuità con le bestie. I report dell’epoca evidenziavano l’estrema arretratezza del luogo. Dopo la terribile alluvione del ’58 che colpì anche quel paese, il borgo fu abbandonato e si scelse di fondare il nuovo paese in una zona costiera piuttosto distante, in un sito avulso dalla storia millenaria del paese vecchio. Lo stesso Zanotti Bianco dichiarava che nessun disastro giustifica lo spostamento dalla loro sede nativa di intere popolazioni, che devono essere fissate – in attesa di abitazioni definitive – in zone non pericolose vicine ai loro luoghi di lavoro.

La soluzione trovata, dunque, non si rivelò affatto felice: la gente non si adattò alla nuova realtà, e denaturata dalle sue tradizioni e dalla sua storia, spogliata della sua identità, non riuscì ad avviare alcuna attività produttiva. L’assistenzialismo che ne derivò e le tristi vicende di mafia, gli omicidi e i sequestri che resero famoso il paese, furono le drammatiche conseguenze di una soluzione alquanto azzardata.

Vittoria Modafferi