“I percorsi d’integrazione e la domanda dei servizi”

Dietro ogni immigrato c’è una storia di vita, un bagaglio personale fatto di esperienza e sofferenza. Spesso, tuttavia, questa verità scompare dal nostro modo di guardare l’altro. E affiorano paure, chiusure, pregiudizi. Rimettere al centro del fenomeno migratorio l’uomo, con la sua storia, è un processo necessario e auspicabile. In modi diversi lo hanno sottolineato le relatrici del seminario di studi intitolato “I percorsi di integrazione e la domanda di servizi” organizzato dall’Università per Stranieri “Dante Alighieri”, dal Cric di Reggio Calabria e da Italia multiculturale. Una sociologa, una giornalista e una funzionaria della Prefettura hanno offerto il loro contributo alla tavola rotonda svoltasi alla “Dante Alighieri”. Tiziana Tarsia – sociologa dell’Università di Messina – ha aperto i lavori con un contributo su “I servizi sociali come luogo di relazione”.

L’integrazione – ha spiegato la Tarsia – è un processo complesso, un percorso che non si raggiunge una volta per tutte, ma è sempre attuale nella vita delle persone. Esso consta di diverse tappe, di fattori oggettivi – come la possibilità di accedere ai servizi, o il vivere in un luogo accogliente – e di fattori soggettivi, inerenti la persona e la sua storia. Ogni persona, infatti, è portatrice di una cultura e di un bagaglio personale. Nei servizi, però, può succedere che le differenze culturali siano legate a una sottovalutazione: si minimizzano, cioè, le diversità e non si ascoltano veramente i bisogni dell’altro. Oppure può accadere di sopravvalutare le differenze culturali, vedendo la persona unicamente come espressione di una cultura troppo diversa e non come un essere umano con una storia e un vissuto. Ciò provoca frustrazione e delusione.

«Una ricerca condotta a Milano – ha affermato la Tarsia – sulla sensibilità interculturale degli operatori ha dimostrato che chi aveva avviato un percorso di conoscenza e di contatto con l’utente straniero, era passato da una fase di negazione dell’altro a una fase di riconoscimento e di apertura.  Questa capacità di relazionarsi è indispensabile nei servizi socio-sanitari. La sensibilità interculturale è un modus operandi, un habitus mentale, un insieme di attitudini che si sfruttano in relazione alle diversità culturali. Gli operatori devono lavorare su se stessi per acquisire competenze e abilità relazionali che servono nel confronto. Inoltre, chi lavora nei servizi deve essere consapevole degli inevitabili  pregiudizi e stereotipi sull’altro che si porta dentro. Perché solo così può cercare di decostruirli ed eliminarli». Pregiudizi che sono presenti e ricorrenti anche nel mondo dell’informazione. Lo ha ben rilevato Paola Suraci – giornalista – che ha relazionato sul tema “Mass media e informazione. La sfida per una integrazione sicura”.

L’integrazione – ha esordito la Suraci – nasce dalla forza delle relazioni e delle storie che però, purtroppo, sono quasi ignorate dai circuiti informativi, preoccupati piuttosto di presentare l’immigrazione come un fenomeno legato alla criminalità, all’insicurezza. La paura di confrontarsi con l’altro ci ha indotto a vedere tutto nero, ci ha fornito una rappresentazione triste e brutta, una immagine in bianco e nero in cui le storie belle, di vita reale, non vengono presentate. Una ricerca condotta nel 2009 dall’Università “La Sapienza” di Roma insieme al Sindacato dei giornalisti ha dimostrato che i media relegano i temi legati all’immigrazione a fatti di cronaca nera o giudiziaria. Gli stranieri appaiono nelle notizie come vittime o protagonisti di fatti criminali; e gli episodi di cronaca sono etichettati con la nazionalità o la provenienza etnica dell’immigrato. Ciò lascia poco spazio all’approfondimento e alla comprensione reale dell’immigrato, non favorendo certo l’integrazione.

«In un paese civile – ha notato la Suraci – ci vuole una informazione che racconti fatti di integrazione positiva o storie di vita, aiutando gli stessi italiani a crescere nel senso di convivenza pacifica. Un passo avanti è stato fatto da alcune agenzie come il “Redattore sociale”, che ha bandito certi termini pregiudizievoli e ha focalizzato l’attenzione sulle persone e le storie. I mass media  dovrebbero ripartire da qui, anche se a livello nazionale ci sono molte differenze e l’integrazione è a macchia di leopardo. Al Nord la situazione è più vivace, con TG in lingua o che raccontano la realtà delle comunità locali. Anche la rete si sta muovendo in questa direzione, grazie a siti internet che forniscono notizie e informazioni in diverse lingue. Al Sud e in Calabria siamo lontani da un processo di integrazione reale. E molto è lasciato ancora in mano al volontariato – che non può farsi carico di tutto – piuttosto che alle varie professionalità».

L’intervento di Alessandra Barbaro – della Prefettura di Reggio Calabria – ha illustrato l’operato concreto della stessa prefettura verso gli immigrati e il percorso di integrazione. È possibile distinguere servizi rivolti direttamente agli immigrati, come quelli espletati dallo Sportello unico per l’immigrazione istituito presso ogni prefettura dopo la legge Bossi – Fini, col compito di svolgere varie pratiche. Al momento quello di Reggio si sta occupando dell’emersione del lavoro irregolare di colf e badanti: le domande sono circa tremila, e si prevede di trattarle entro luglio. E poi esistono delle attività di carattere generale che rientrano in una più ampia politica di immigrazione. Per esempio quelle svolte dal Consiglio territoriale per l’immigrazione, che è nato nel ‘99 ed è un organo collegiale presieduto dal Prefetto e composto da enti locali, associazioni rappresentative degli immigrati o con ruolo primario negli interventi a loro favore. Questo organo ha il polso della situazione locale: è addetto a monitorare la presenza degli immigrati nella provincia, valuta la capacità di assorbimento del territorio, fa il mediatore negli eventuali conflitti, interviene per migliorare i servizi… E poi, oltre a fornire pareri sui progetti, li indirizza in base alle peculiarità del territorio, alle esigenze e ai bisogni. Nel 2007 sono stati finanziati due progetti che hanno ottenuto risultati positivi, con una ricaduta considerevole sul territorio. A dimostrazione che il lavoro di rete non solo ha più facilità ad essere finanziato, ma produce effetti che hanno una certa continuità nel tempo. «Speriamo – ha concluso la Barbaro – che i servizi messi in atto abbiano conseguenze positive nel tempo e possano essere fruite dal maggior numero di persone. La Prefettura può svolgere un ruolo sempre più importante, grazie al lavoro di persone competenti e capaci di cambiare la realtà locale».

Preziose le testimonianze offerte nella seconda parte del seminario: Grazia Gatto – criminologa e referente del laboratorio Bachelet – ha illustrato i risultati di una serie di questionari distribuiti in diocesi e compilati da cattolici praticanti sul tema dell’immigrazione. Il fascicolo, in via di pubblicazione, rivela che il mondo cattolico non ha una esatta percezione quantitativa degli immigrati, né conosce il sistema di accoglienza della propria parrocchia. «È importante – ha asserito la Gatto – essere informati sulle proprie forze e risorse, in modo da non creare doppioni, e per intervenire a potenziare le strutture esistenti. Mentre per avviare percorsi di integrazione è indispensabile conoscere il fenomeno migratorio com’è nella realtà, cercando di creare iniziative che facciano incontrare le persone piuttosto che le culture».

Su quest’ultimo piano si è mossa l’iniziativa promossa dalla CVX di Reggio, come ha ricordato il dottore Uccio Marzolla, che ha parlato dell’esperienza decennale dell’ambulatorio medico per immigrati di via Cimino. «Queste persone – ha affermato il medico reggino – le abbiamo sempre considerate dei nostri pari, e il nostro impegno a favore degli ultimi si muove su un piano di uguaglianza: trattare tutti con dignità e rispetto, senza nessuna preclusione».

 

 

Vittoria Modafferi