È irragionevole, utopica, astratta, inefficace? O è una via percorribile, anzi la via da praticare per vivere bene insieme? In un mondo governato dalla violenza e intriso di cultura violenta, c’è ancora spazio per riconoscere che è la nonviolenza la dimensione costitutiva di ogni uomo? C’è spazio per cercare insieme le ragioni e le modalità per costruire diversamente la casa comune, di tutti noi? non accontentandosi solo di sopravvivere – magari alla crisi dell’euro o allo spread – ma creando le condizioni per vivere e far vivere umanamente? secondo la cifra dell’ordine del Bene – per sua natura nonviolento – che ci ha generati e, abitando in noi, ci continua a ri-generare?
Queste le riflessioni al centro della lezione svolta all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza” da Giovanna Cassalia – docente di antropologia filosofica presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Reggio Calabria – su “Realismo e ragionevolezza della nonviolenza”. La Cassalia ha invitato a riflettere in primo luogo su quanto talune modalità di pensiero, consolidate ormai e che trovano espressione acritica in luoghi comuni e slogan ripetuti spesso meccanicamente, possano essere determinanti nella formazione di atmosfere e culture di violenza. Generatrici a loro volta di azioni violente. Ed anche di vere e proprie strutture di violenza: sociali, politiche, economiche. Perché c’è l’agire violento, visibile, insopportabile. E c’è il pensare violento. Che non si traduce sempre in ‘concrete’ azioni immediatamente violente e per questo è ritenuto meno o per nulla dannoso. Occorre invece riconsiderare, e con molta serietà, l’importanza e il peso del nostro modo di pensare, inscindibile dal modo di agire, individuale, sociale, politico. Con tante ragioni in più per operare con urgenza una svolta culturale da parte nostra, che viviamo in questo tempo e in questo luogo, il Sud, l’uno e l’altro assai difficili. «L’esercizio del pensiero pensante nonviolento non è affare solo degli addetti ai lavori, ‘quelli che non hanno niente da fare’ (questo si pensa, opponendo la concretezza del ‘fare’ all’astrattezza e fumosità delle idee e dei principi). Si tratta invece di rivolgere, tutti, maggior cura alle idee e alle parole e di avere il coraggio di abbandonare talune categorie mentali cariche di una formidabile capacità distruttiva, che ci hanno accompagnato sin qui». Per riappropriarci tutti di quella responsabilità anche del pensare, apparentata strettamente alla libertà, che sola ci può restituire quel profilo di umanità – i cui tratti sembrano sempre più sbiadire – per non scivolare verso la disumanità. Finora abbiamo pensato nel solco di una cultura, antica e moderna, carica, per certi aspetti, di violenza. E questa cultura non siamo stati in grado di criticare e contestare. Urge ora un risveglio dell’intelligenza e del cuore per esplorare possibili nuove vie alternative nonviolente e/o recuperare e rianimarne di già note, per costruire convivenze veramente civili. E per cominciare, mettere a nudo, per liberarcene, quelle subdole forme di violenza che insidiano oggi specialmente il nostro pensare e condizionano fortemente le scelte individuali e collettive, dice la Cassalia. E ne propone alcune esemplificazioni.
Non produce forse ‘concrete’ conseguenze di ingiustizia e prevaricazione il pensiero strategico e funzionale, quello calcolante e astuto, che oggi prevale e secondo il quale tutti, chi più chi meno, ci troviamo a ragionare? Non è violento il pensiero moralistico che per difendere un valore ‘oggettivo’ perde di vista, quando non offende o annienta, il valore vivente che è l’uomo? Non è violento il pensiero che pensa nell’ordine della sola identità, traducendosi in concretissime forme di brutale esclusione di chi è diverso e di rifiuto del dovuto riconoscimento delle differenze e delle alterità? È comune convinzione che la nonviolenza si può sì pensare e predicare ma è poi irrealistico, ingenuo e impossibile praticarla. Facilmente confutabile ciò, e dal punto di vista storico e da quello logico e antropologico. Se si interroga la storia, sporcata da trame di violenza inaudita, si scopre che, sì, è vero che la pratica della nonviolenza non è stata sempre vincente, tuttavia ancor meno lo è stata la violenza. Il male che si è cercato di combattere con metodi diversi da quelli nonviolenti – anche quelli adottati come “contro-violenza” e per questo anche ‘giustificati’ e ‘legittimati’: guerre cosiddette giuste, guerre preventive, perfino legittimo omicidio per la difesa dei beni materiali, ecc. – si è moltiplicato, generando ingiustizie incolmabili e incontrollabili reazioni a catena. Perché la contro-violenza è pur sempre violenza. E la violenza non va alla radice, non ha la pazienza di sciogliere i nodi del male. Essa li recide, i nodi, ma le cause e le (non)ragioni del male restano. La nonviolenza, al contrario, va alla radice, ha la pazienza di cercare vie diverse da quelle violente per risolvere i conflitti. E possibilmente prevenirli. Se si riflette sulla natura umana ci si accorge che l’uomo non cerca il suo annientamento, ma il compimento, la felicità. Faticosamente e pur tra tanti fallimenti, perversioni e malintesi, cerca vie di rinascita, percorsi di rigenerazione. Perché la nostra provenienza originaria non è dal male, ma dal Bene. E il Bene è nonviolento.
«Tradisce perciò la stessa sua natura chi queste vie le individua nel modulare il suo pensiero e orientare la sua condotta secondo l’ordine della violenza, che è invece forza distruttiva. Anch’essa forza, energia, la nonviolenza è però la forza di ‘patire’ il male. Di ‘portare’ cioè il male ricevuto e le colpe altrui, senza restituirli, senza farne motivo di rancore, di vendetta. Senza rilancio. Bloccando così la catena del contagio. E riportando l’esperienza delle relazioni umane sui binari della ragionevolezza (del violento si dice che è uno che ‘perde il lume della ragione’)». Se consiste nell’accogliere lucidamente il male dell’altro e coraggiosamente e attivamente fermarlo, convertirlo, allora la nonviolenza non è passiva rassegnazione o inettitudine ad agire, o viltà, come si pensa comunemente. Essa è radicata nell’uomo come principio costitutivo, inaggirabile, dunque. Non viene ‘dopo’. E perciò non si sceglie, come fosse un’opzione tra le altre. «Certo, posso scegliere – questa sì – la via della violenza, ma allora scelgo di vivere nell’infedeltà a me stesso». È quella della nonviolenza la postura che propriamente s’addice all’uomo, allora.
Va detto tuttavia che non è certamente cosa facile praticare sempre e in ogni circostanza la nonviolenza, ha sottolineato la Cassalia: la fragilità, le inadeguatezze, morali, culturali, individuali e collettive, una certa quota di stupidità di cui pure siamo impastati, ci rendono purtroppo, chi più chi meno, attori di violenza. Ma questo non significa che l’imperativo della nonviolenza non sia assoluto, e che possano valere in linea di principio eccezioni ad esso. «Altro è l’incapacità nostra e l’impreparazione (il pensiero e la pratica nonviolenti vanno coltivati, non funzionano per solo istinto), altro è giungere a sostenere che talora la violenza è mezzo ‘necessario’, che ragioni insormontabili ne possono legittimare l’uso e che è ‘impossibile’, in certe condizioni, pensare e operare diversamente. Impossibile evidentemente non è, se degli uomini nella storia hanno attraversato situazioni difficili o estreme da maestri della nonviolenza. E poi, se la consideriamo necessaria, sia pure in situazioni eccezionali, allora la violenza è bell’e giustificata e legittimata».
È perciò richiesto uno sforzo comune, in libertà e verità, per aprire vie diverse di risoluzione dei pur inevitabili conflitti. Vie che non siano quelle qualificate esclusivamente dal criterio oggi onnipervasivo dell’efficacia. Strettamente legato al risultato visibile, misurabile, il criterio dell’efficacia ha certo la sua importanza, ma d’ordine prevalentemente quantitativo, economico. Esso generalmente prescinde dall’etica e dalla politica ed esalta il ‘fare’. Si può applicare perciò in ambiti delimitati. C’è anche un’altra misura, che più s’addice all’uomo. Qualitativa. È quella della fecondità. Ed è fecondo tutto ciò che non è distruttivo, tutto ciò che favorisce la vita, in tutte le sue manifestazioni e le sue fasi. Non ciò che la ostacola, che l’annienta. Dare la vita, non solo vivere; far vivere, non solo lasciar vivere: questo è portare frutto. Dentro la storia. Non fuori di essa, oppure oltre la storia o di fronte ad essa. E questo lo si può fare solo ‘con’ gli altri, ‘per’ gli altri, non ‘contro’ gli altri. Ed è solo la nonviolenza che accetta d’esser misurata così. Nonviolenza: insostituibile via per l’edificazione della convivialità umana.
Vittoria Modafferi