Il confronto pubblico fra i sostenitori del “sì” e del “no” alla riforma costituzionale c.d. Renzi-Boschi è ormai diventato, purtroppo, una vera e propria guerra di religione e sta spaccando il Paese su un tema che non dovrebbe essere divisivo, essendo la Costituzione la casa di tutti. Che prevalgano i sì o i no, non ci troveremo di fronte a una crisi irreversibile, né a un colpo di Stato strisciante. Entrambe le posizioni sono, con ogni evidenza, irragionevoli e spia eloquente della prevalenza di fattori psicologici irrazionali.
Chi scrive ha rifiutato di firmare sia la lettera dei 56 costituzionalisti per il “no”, non ravvisando alcun elemento eversivo nel testo della riforma, sia il documento dei 184 giuristi per il “sì”, ritenendo che la riforma non sia perfetta e presenti alcuni difetti. Dovremmo avere, invece, un approccio “laico” al testo, serenamente valutando/bilanciando se i pregi prevalgano sui difetti e votare di conseguenza. È appunto quel che ho cercato di fare: proverò, qui, a spiegare perché voterò «sì».
A parte minori sviste e difetti, su cui per ragioni di spazio qui nemmeno mi soffermo (come non mi soffermo sulla legge elettorale, certo migliorabile, ma argomento che esula dal tema in senso stretto), l’unico vero, grave punto debole della riforma è la “modalità di elezione” dei senatori. Si badi: non le “funzioni” del nuovo Senato, che – rappresentando le autonomie locali – saggiamente viene differenziato dalla Camera, eliminandosi l’obbrobrio unico al mondo di un bicameralismo perfetto. Il nuovo Senato viene ridotto nei suoi compiti: non dà più la fiducia al Governo, esercita funzioni di controllo e poteri legislativi con la Camera in soli 15 casi. Giustamente l’organo viene ridotto anche nel numero: rispetto agli originari 315, scende a soli 100 membri (73 consiglieri regionali + 22 sindaci + 5 senatori nominati dal capo dello Stato, opportunamente non più a vita). Il “modo” con cui verranno scelti i 95 senatori rappresentanti delle comunità locali resta, però, ambiguo, essendo rinviato a una legge bicamerale. È vero che tale legge dovrà «tener conto della volontà del corpo elettorale» (c.d. emendamento Finocchiaro alla riforma), ma non si sa ancora se ci sarà: a) un’elezione indiretta (i consiglieri regionali, eletti dal popolo, si scelgono poi i senatori); o b) un’elezione diretta (l’elettore indica il consigliere regionale destinato a diventare senatore).
Questo difetto, non trascurabile, esiste, ma non è irrimediabile: la stessa riforma, infatti, prevede anche che la minoranza parlamentare possa impugnare alla Corte costituzionale preventivamente – quindi prima che entrino in vigore – le leggi elettorali, dunque anche quella per l’elezione del Senato, ove non attuasse il ricordato emendamento Finocchiaro.
Gran parte degli altri difetti segnalati dai fautori del “no” sono inesistenti: è vero che i senatori svolgeranno un “doppio incarico” (essendo anche consiglieri regionali o sindaci), ma non è affatto vero che è impossibile far bene le due cose: il Senato si riunirà poche volte al mese e nessuno più degli eletti negli enti “locali” è in grado di rappresentare gli interessi “locali”; è vero che il Parlamento che ha approvato la riforma è stato eletto con il c.d. porcellum, dichiarato illegittimo dalla Corte cost. con la sent. n.1/2014, ma è altrettanto vero che la stessa sentenza autorizza il Parlamento a svolgere le sue funzioni (tant’è che tale organo ha eletto anche 2 Presidenti della Repubblica e alcuni giudici costituzionali); è vero che la riforma è un disegno di legge del Governo, ma la cosa è lecita, tant’è che non è la prima volta che accade, ed in ogni caso la legge è stata approvata dal Parlamento con 6 deliberazioni e centinaia di migliaia di emendamenti; è vero che cambiano ben 47 articoli della Carta, ma la Costituzione del 1948 non è stravolta. Infatti, la prima parte della Carta, quella sui principi fondamentali e i valori di fondo, non è toccata. Le 47 modifiche, poi, spesso sono solo di forma (ogni volta che si usano le parole Senato, Camera, Parlamento cambia l’articolo). Semmai, si passa da 139 a 131 articoli; è vero che l’art. 70 della riforma è lungo e molto tecnico, ma è corretto e non più lungo di altri testi in analoghi sistemi a bicameralismo differenziato (RFT o Austria); è vero che viene inserita una “clausola di supremazia” – per l’unità economico-giuridica e l’interesse nazionale – a favore dello Stato rispetto alle Regioni, ma ogni Regione che si ritenesse lesa nella sua competenza può sempre rivolgersi alla Corte costituzionale; ecc.
Le critiche sono infinite e spesso fantasiose: potrei facilmente continuare nella loro contestazione punto per punto, ma lo spazio non lo consente.
Vengo senz’altro, dunque, ad elencare almeno alcuni dei “pregi”, almeno a mio avviso, certi della riforma (tutti è impossibile, visto lo spazio qui disponibile):
- eliminazione di un inutile CNEL;
- eliminazione di un bicameralismo perfetto e paritario per farraginosità unico al mondo;
- riduzione, pur minima, delle spese e del numero dei membri della c.d. “casta politica” (quanto alle spese, riducendosi anche gli stipendi dei consiglieri regionali a quelle dei sindaci dei capoluoghi ed abolendosi le province, si tratta di centinaia di milioni di euro e non di 58, relativi al solo Senato);
- eliminazione dei cinque senatori “a vita” di nomina presidenziale (adesso la carica è solo settennale);
- eliminazione delle Province e riduzione “ragionata” dei poteri delle Regioni (grosso modo si ritorna, in tal modo, alle Regioni previste nel 1948, prima della pessima riforma cripto-federalista del Tit. V fatta solo per evitare il secessionismo della Lega di Bossi. In ogni caso, una riduzione razionalizzata delle competenze regionali non significa affatto cancellazione dell’autonomia regionale);
- la creazione di una corsia preferenziale per i disegni di legge del Governo «essenziali per l’attuazione del programma» (il c.d. “voto a data certa” – che vede decidere la Camera in circa 2 mesi – è presente in tutti gli altri ordinamenti costituzionali: ciò evita che i disegni del Governo si perdano nella “palude” dei lavori parlamentari);
- una corposa limitazione dei decreti-legge (è il giusto contrappeso al precedente istituto: oggi invece i governi abusano della decretazione d’urgenza, anche in situazioni non eccezionali, e gran parte del lavoro delle Camere è costituito dalla mera approvazione di leggi di conversione di D.L.);
- la possibilità di un giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali;
- l’introduzione del referendum popolare propositivo e di indirizzo e la nuova disciplina del referendum abrogativo (se si raccoglieranno 800.000 firme, il quorum si abbassa parecchio, essendo calcolato sul numero «dei votanti alle ultime elezioni», a tutto vantaggio degli elettori-cittadini; se si raccoglieranno da 500.000 a 800.000 firme, il quorum originariamente previsto, cioè la maggioranza degli aventi diritto, resta invariato);
- l’introduzione di un’espressa tutela delle minoranze/opposizioni;
- la facoltà per le Regioni virtuose (che gestiscono bene il bilancio) di ricevere più competenze;
- l’esclusione dall’esercizio delle funzioni dei titolari di organi di governo regionali e locali se hanno portato il loro ente al dissesto finanziario.
Potrei continuare, ma concludo.
Pur riconoscendo che la riforma presenta imperfezioni, credo che si possa senz’altro rimediare a qualche difetto. In ogni caso, “il meglio (incertissimo di domani) è peggio del bene (certo e oggi possibile)”. Probabilmente prevarranno i no, visto il populismo e la disinformazione diffusi, ma i pregi della riforma, a mio avviso, sono di gran lunga maggiori degli svantaggi. Dunque voterò “sì”.
Ma, comunque vada, il Paese non deve spaccarsi.
Antonino Spadaro
(Ordinario di Diritto costituzionale Università Mediterranea, RC)