Stare al mondo da cittadini. Promessa e rispetto: misura dell’agire politico

Stare al mondo è abitarlo, condividerlo con gli altri, intessendo legami interpersonali, sociali, politici. Così ha avviato il suo incontro su Stare al mondo da cittadini. Promessa e rispetto: misura dell’agire politico, nel seminario in corso di svolgimento all’Istituto di formazione politico-sociale ‘mons. A. Lanza’, Giovanna Cassalia, docente anche di antropologia filosofica nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose .

  Da cittadini, uomini liberi che, essendo parte della società civile, si occupano della cosa pubblica orientandola verso il bene comune. Né da sudditi, quindi, e neppure da clienti o da consumatori. Ma da uomini liberi – ha ribadito.

La cittadinanza – ha poi precisato – non è solo uno status. Essa è una pratica e un processo. Sempre dunque imperfetta, e sempre perciò da rifondare. Da migliorare: negli spazi d’azione riconosciuti e in quelli da riconoscere, ma anche  nelle modalità d’accesso. Essendo essa attraversata, come ogni processo, dalle inquietudini e dalla mobilità proprie della storia, occorre affinare la capacità d’ascolto e di lettura dei segni di novità, dei bisogni e delle richieste anche inedite, che i tempi propongono e a volte impongono.  E rimettere in gioco identità acquisite, gelosamente custodite e protette anche quando sono in aperto contrasto con la dignità, i diritti più elementari, le richieste di condizioni più umane d’esistenza di altri. Non certo per tradirle, quelle identità, ma per connotarle sempre di più e meglio con i tratti che nella verità e nella giustizia per tutti e con tutti trovano senso e fondamento.

La fecondità dello stare al mondo da cittadini è misurata da alcune condizioni essenziali. Tra queste, una prassi di fedeltà alla promessa e di rispetto.

  Promessa e rispetto: alla bulimia della loro ricorrenza verbale sembra corrispondere oggi una prassi sociale e politica di diffuso tradimento e travisamento – ha affermato la docente.

Ma perché promessa e rispetto costituiscono condizioni e misura dell’agire politico e non sono solo faccende private?

Sia la promessa che il rispetto istituiscono legami: si rivolgono ad altri,  inaugurano relazioni di fiducia, le mantengono, le curano. Sono impegnativi: nei confronti degli altri, ed anche nei confronti di sé.

Ora, non è forse vero che sia l’esercizio avvertito e sincero del potere di promettere, sia l’esercizio del rispetto – della parola data e della persona (altrui e mia) – sono forme di realizzazione della giustizia?  E non è la politica lo spazio proprio   dell’impegno per la costruzione di un mondo giusto con tutti, tra tutti, per tutti? E governare non è essenzialmente custodire la giustizia?

E non è forse altrettanto vero, al contrario, che l’esercizio pervertito e ingannevole della promessa e il rispetto negato – sempre possibili entrambi perché affidati alla nostra libertà e ai mille tornanti della nostra fragilità, e spesso incarnati da istituzioni e sistemi strutturalmente ingannevoli e ingiusti – generano e accrescono squilibri sociali e distorsioni politiche?

 

Nella promessa l’uomo attua la sua tendenza a confermarsi soggetto libero e intero, capace di armonizzare pensieri, parole, azioni. La promessa è perciò in primo luogo – ha rimarcato la Cassalia – un atto di riconoscimento di sé; è un modo maturo per dimostrare a se stessi innanzitutto la capacità di assumere responsabilmente impegni duraturi nel tempo.

È, in secondo luogo, la promessa, atto di riconoscimento di altri: una società può esser detta umana nella misura in cui i suoi membri si confermano l’un l’altro.

Così, nella promessa, io mi dico ciò che ti dico, io mi riprometto ciò che ti prometto: è questa una spirale che induce me e gli altri a rapportarsi reciprocamente in modo cooperativo e sincero, non dominativo e ingannevole.

Perché, a rifletter bene, – ha detto la docente – esser fedeli alla promessa che facciamo è al tempo stesso esser fedeli alla promessa che siamo. Fedeli alla trascendenza che ci inabita e che ci chiama alla pienezza. In sintonia, non in competizione, con gli altri. Lo stesso significato etimologico di promessa ci aiuta a comprendere questo. Pro-mittere: mandare avanti, dare inizio ad una relazione con altri, obbligarsi con altri. Perciò pro-mettere è anche compromettersi. Nel duplice senso: a) di impegnare la propria libertà, onorabilità e dignità davanti e verso gli altri; b) di assumere con gli altri l’impegno di mantenere nella verità la relazione.

La promessa inaugura perciò dinamiche di vita buona che danno senso e respiro, oltre che ai rapporti interpersonali, anche a quelli sociali, pubblici, politici.

Insomma nella promessa è in gioco la possibilità di sperimentare se e quanto siamo all’altezza della nostra umanità e della nostra maturità umana. Se e quanto siamo capaci di esercitare la nostra libertà impegnandola con la verità (verità esigita dalla dignità delle persone coinvolte ed anche verità del legame che tra di loro essa istituisce). E siccome la promessa è obbligante nel tempo e anche nei confronti del tempo, se e quanto consideriamo il tempo come dimensione non da subìre, ma da vivere con gratitudine, come dono ricevuto per far fruttificare la naturale propensione al bene, con tutti.

Dunque anche in ambito sociale e politico la promessa falsa e menzognera – ne è insopportabile esempio quella praticata con ineffabile incoscienza (o forse con accorta malizia manipolatoria dei consensi) da governanti senza pudore – è indice d’immaturità, di inadeguatezza, di mancato o insufficiente sviluppo della capacità di stare al mondo da ‘uomini liberi’, che  s’impegnano per la sua trasformazione in senso emancipativo.

 

Nella promessa si sperimenta la libertà di dire-fare la verità. Ora dire-fare la verità è espressione anche di rispetto.

Da non ridurre alle buone regole di comportamento, al galateo, all’etichetta, alle buone maniere a tavola, e neppure all’ossequio servile al potere costituito, il rispetto, principio fondamentale della moralità, dà senso alle regole.

Gli appelli più disperati del nostro tempo invocano sì giustizia, ma forse ancor di più rispetto, pieno riconoscimento come persone.

Un aiuto significativo per una comprensione meno superficiale di ciò che il rispetto è ci è offerto dall’etimologia del termine: re-spicere=ri-guardare, vedere e rivedere, restituire lo sguardo. Lo sguardo d’altri ha il potere di colpirmi e di provocare la mia reazione di restituire lo sguardo. Perché? Perché è lo sguardo che riconosco – al di là delle differenze – come proveniente da un essere col quale condivido la comune appartenenza allo stesso mondo, naturale, culturale, morale. E così – ben oltre il significato negativo o passivo che può assumere: non nuocere agli altri, non esercitare violenza o sopruso, che si traduce a volte in mera indifferenza, o tolleranza senz’anima – il rispetto esprime piuttosto la tendenza a farsi carico degli altri, a cooperare per la realizzazione dei loro scopi, a credere che l’umanità in ciascuno – come in me – si può esprimere e fiorire secondo modalità  inedite, sempre nuove e sorprendenti.

Allora quel gioco degli sguardi cui rinvia l’etimologia non produce sottomissione, ma esprime un movimento che è piuttosto di deferenza, è un piegarsi nell’atto dell’ascolto, un porgere l’orecchio, ubbidienza non passiva ma di riscontro, di risposta.

Il rispetto per gli altri – analogamente a quel che è la promessa – è anche sempre rispetto per se stessi.

La fonte del rispetto è certamente la legge morale. Ma il rispetto è anche pilastro dell’etica pubblica. Nutrimento delle decisioni e degli accordi politici, valore fondante del liberalismo e della democrazia E se riconosciamo che a tutti i membri del genere umano appartiene lo status di persona, allora a tutti è dovuto eguale rispetto, anche se le differenze tra gli uomini (di capacità morali, di comportamenti, di capacità razionali, ecc.) sono evidenti. Ovviamente si parla qui – ha detto la docente – del rispetto-riconoscimento della dignità delle  persone in quanto tali, dovuto indipendentemente da meriti, non anche del rispetto-stima, attribuito per meriti, qualità, carattere, ecc.

Il rispetto, sia nei rapporti interpersonali che in quelli  della sfera sociale e politica, è sempre correlato alla giustizia: nei primi scaturisce da, e si nutre di, sentimenti di affinità, amore, simpatia, ma – a guardare in profondità – vi agisce anche lì il senso della giustizia; negli altri, il rispetto è innanzitutto legato alla giustizia, ma – a guardare anche qui  in profondità – non è assente l’azione del sentimento (si pensi a certe edificanti riflessioni sull’amore politico, ad esempio).

Il tema del rispetto è, ed è bene che sia, in primo piano nel dibattito sulle politiche del riconoscimento, sempre più complesse e problematiche (un esempio: rispetto al suo oggetto, il rispetto-riconoscimento è dovuto solo alla persona per la sua dignità individuale o anche alle identità collettive?), sul dialogo interculturale, su quello interreligioso.

La ripresa d’attenzione al rispetto apre altresì ad una messa in discussione di quelle interpretazioni consolidate circa il tema diritti/doveri che non appaiono del tutto adeguate per dar conto di esso: la logica del rispetto è davvero tutta inscritta e soddisfatta nel paradigma del dovere, o lo supera? Mi basta esser rispettato per dovere?

Sono domande che impongono riflessioni che non sono solo esercitazioni teoriche, ma hanno notevoli e decisivi risvolti pratico-politici e antropologici. E aprono davvero spazi importanti per l’impegno educativo e formativo di qualità circa il tema della cittadinanza.  

 

 

Vittoria Modafferi