CORSI E RICORSI “L’AGONISMO IN SENO ALLA SINISTRA DEMOCRATICA”

Il parallelismo storico mi pare chiaro: oggi, i renziani, i piùeuropeisti, i calendiani, i radicali, i socialisti di diverse appartenenze (non tutti per fortuna), si oppongono all’assestamento bipolare del sistema politico italiano –  a guida Democratica nel Centrosinistra (in dialogo con i nuovi 5 stelle) – per non perdere la rendita di posizione – tipo ago della bilancia – che un sistema politico tripolare o, meglio, frammentato, può assicurare a piccole formazioni di sinistra liberale.

Fu lo stesso errore commesso nell’alba della Repubblica dal Partito d’Azione che per non darla vinta al riformismo socialista, per velleità identitarie, condusse all’eclissi dell’unità dei riformisti – insieme alla pavidità del Partito Socialista in eterno bilico tra gradualismo e tentazione rivoluzionaria –  così conducendo alla strutturazione della DC come contenitore “non neutro” delle diverse e complesse identità politiche italiche.

Un contenitore “non neutro” – perché sinceramente antifascista e popolare –  che spezzò in nuce l’affermazione tanto di un soggetto maggioritario Liberalconservatore quanto quello di uno maggioritario Socialriformista.

La DC, insomma, assorbì al suo interno la dialettica dell’alternanza che era esclusa fuori di essa dall’insipienza dei riformisti e dei riformatori, incapaci di Unità.

L’altro soggetto che godette della mancata unità dei riformisti fu quel PCI dedito, per troppi anni, a svilire una seria e matura opzione governativa per crogiolarsi nell’identitarismo massimalista.

I comunisti, quindi, conservarono intonsa la retorica estremista e rivoluzionaria – anche nella fase più complessa dell’Eurocomunismo –  per adeguarsi a prassi di buon senso solo nella gestione amministrativa dei territori senza, dunque, attuare una vera svolta ideologica Socialdemocrartica, limitandosi a marcare differenza dai sovietici ormai fuori dalla Storia.

Luigi Covatta, da poco scomparso, nel suo saggio del 2005, “I Menscevichi”, chiarì – da politico e intellettuale cattolico e da socialista – come di fronte alle lacerazioni bolsceviche e identitarie delle forze di sinistra e di quelle del Partito d’Azione, nella crisi eterna dei socialisti incapaci di una definitiva scelta autonomista, a dar corpo efficacemente alle opzioni riformiste nel Secondo dopoguerra, a condurre con tenacia alla formazione del Primo Centrosinistra, ad introdurre in Italia fermenti laburisti e keynesiani (prodotti liberali e occidentali occorre precisare, come il Welfare State di Bedverige) fu la sinistra cristiana, il laburismo cattolico e il lungo lavoro preparatorio di Dossetti e Lazzati.

L’articolazione pluriarchica della DC consentì, infatti, di riprodurre efficacemente al suo interno quella feconda contrapposizione tra Conservatori e Riformisti che era negata all’esterno per i limiti di una Costituzione omissiva sulle regole del Governo e dell’alternanza e per le pecche/tare dei Partiti di Sinistra e di Destra.

Venendo al polo liberale, infatti, un campione come Einaudi non trovò ascolto all’interno del PLI piegato sulle astratte fascinazioni crociane per la Religione della Libertà e, così, cieco innanzi al liberalismo anglosassone.

Einaudi, quindi, fu in qualche modo assorbito dal milieu  cattolico, e sostanzialmente espulso da quello liberale.

La sinistra DC, d’altro canto, seppe rompere con il Neocentrismo degasperiano grazie a Fanfani (vero erede del dossettismo) che, già prima del 1963, prima quindi del primo governo di Centrosinistra organico appoggiato formalmente dal PSI, seppe accogliere i fermenti socialisti realizzando la nazionalizzazione delle imprese elettriche, la scuola media unica, il progetto , purtroppo non compiutamente concretizzato, della riforma urbanistica.

Il Partito dei cattolici, quindi, in qualche modo, paradossalmente e fecondamente, rappresentò in sé stesso una ‘terza forza’, un progressivo allargamento della base democratica del Paese, spesso a prescindere dagli arroccamenti a Sinistra.

Purtroppo, questi tentativi furono imbrigliati col tempo dagli istinti Dorotei, tanto da spingere i più accorti, penso a Donat Cattin, nel 1967, ad accertare i limiti anche del riformismo cristiano, riconoscendo come il partito dei cattolici avesse finito per essere, nel tentativo di avere il massimo delle adesioni (categoria non politica ma di Potere), il partito della non scelta, della scelta ritardata e fondata solo sulla necessità incombente.

I ritardi del riformismo italico, quindi, emergono chiaramente da una storia politica che ha sempre in fondo preferito il Massimalismo a sinistra, il Dannunzianesimo a Destra e il Cerchiobottismo al Centro, conformandosi ad un radicalismo ideologico (anche l’occasionalismo di Potere è radicalismo) buono per puntellare ideologicamente le appartenenze ma non funzionale all’interesse generale, alla strutturazione di uno Stato e di una Amministrazione davvero efficiente.

Ed oggi? Oggi c’è la possibilità di un rilancio nuovo degli impulsi riformisti?

È il PD di Letta, di Provenzano e di Tinagli, a mio parere, a caratterizzare questa opzione politica.

Il riformismo cattolico e quello migliorista e gradualista, assieme, possono dar vita ad una nuova stagione di riforme (non di semplice e velleitario “cambiamento”), contendendo alla Destra Sovranista l’agenda politica italiana.

È dai diritti sociali di seconda generazione che bisogna partire!

Dall’allargamento della base democratica del Centrosinistra che passa dai diritti dei più deboli, degli emarginati, delle minoranze, e dalla tutela della responsabilità individuale e della scelta sui temi bioetici.

Assieme a queste prospettive, vanno riattualizzate le battaglie storiche del laburismo e dell’intervento perequativo pubblico teso a mitigare le diseguaglianze.

Non si tratta, ovviamente – e l’attenzione di Letta verso il mondo delle imprese lo dimostra – di sottrarre terreno alla libera intrapresa privata ma, al contrario, di sostenerla attraverso l’efficienza di servizi pubblici finalmente moderni, grazie anche ad un rilancio delle assunzioni nella P.A.

Le attuali tragedie della pandemia ce lo hanno ben dimostrato: una P.A. debole e anziana, il ridimensionamento del Pubblico Impiego, la rinuncia a servizi uniformi su tutto il territorio nazionale, a livelli di assistenza perequati, portano a disastri che si ripercuotono sull’impresa e sul lavoro.

Stato forte e Economia sana, infatti, si tengono insieme ed è anche questa una lezione riformista che, di certo, contraddice in nuce il semplicismo delle Estreme, di destra o di sinistra poco importa, che risolvono la complessità feconda del reale e l’articolazione dialettica delle forze in gioco, sempre e solo in un modo univoco:

con l’autoritarismo dei Potenti. Ricchi oligarchi, uomini del destino, capi di Partito, illuminati ideologi, boiardi e burocrati inamovibili, Capitani d’industria foraggiati e foraggiatori di politici. Sono questi i nemici da sempre dei Menscevichi, i nemici del Paese.

Tocca ora ai sinceri liberali capirlo davvero. Tocca i c.d. moderati (e ai “radicali” senza radicalismi) interpretare il proprio ruolo di terza forza in modo moderno e fecondo.

Non si tratta, infatti, di concretizzare un Centro politico ballerino e piegato alle esigenze mutevoli dei più forti, non si tratta di rappresentare il “quarto partito” di degasperiana memoria (quel partito degli interessi finanziari sul cui altare, per mere esigenze opportunistiche, si possono sacrificare le speranze progressive e liberanti del Paese) ma, al contrario, si tratta di vivificare con le proprie idee, con la concretezza e il pragmatismo dell’approccio davvero liberale – che è essenzialmente etico perché ha al centro la Persona –  la migliore offerta politica per l’Italia:

quella sinceramente europea, ancorata all’alleanza atlantica, lontana dalle fascinazioni cesaropapiste di Putin, dal sovranismo cattivista di Orban, dai miti nefasti della piccola patria, dei muri e dei recinti a difesa di un ethnos razziale privo, appunto, di ethos e di cultura.

Enzo Musolino