La consapevolezza di essere Persona donna : un percorso tra norme e pronunce giurisprudenziali

Siamo oggi certamente ben lontani da quanto Napoleone affermava nella discussione al Consiglio di Stato per la realizzazione del code civile:  Le mari se  doit pouvoir dire:…Madame vous m’appartener corps et ^ame; ..madame vous n’irez pas a la  La legge 17.07.1919 n.1176 abrogava infatti  l’istituto della autorizzazione maritale e tuttavia dopo quasi 200 anni,  la consapevolezza della Persona donna che decide di separarsi fa esclamare a qualche marito ancora con una punta di rammarico: è sfuggita, si è sottratta al mio potere!, suscitando quella furia devastatrice (che direbbero i penalisti ottenebra le menti e distrugge il cuore).

Autorevole  dottrina[1]   ha avuto modo  di osservare  come non sia facile fissare riferimenti temporali rigidi, ma è significativo- come intorno agli anni 1970 quasi contemporaneamente in voci di enciclopedia, da studiosi di diverse generazioni venga  rivendicata da un lato la centralità nella famiglia   dell’individuo e dei suoi interessi e non dell’organismo in quanto tale (Bianca, De Cupis); dall’altro al legislatore venga indirizzato un monito : tenere conto della evoluzione della donna e quindi anche dell’istituto della famiglia, evitando di mortificare il ritmo del progresso di larghi settori della società nazionale   per tenere il passo con altri, meno progrediti e meno consapevoli[2].

Questi due termini progresso e consapevolezza, anche letti in ordine diverso, sono un binomio inscindibile, potremmo dire  due motori che devono necessariamente  restare accesi entrambi nel cammino al femminile. Un’applicazione immediata è  data dal principio di eguaglianza nel rapporto e nella permeabilità  famiglia /società.

L’eguaglianza della moglie all’interno della famiglia si realizzava, secondo alcuni giuristi,  man mano che la donna riacquistava la propria eguaglianza con il suo inserimento nella società. Si accendeva  il dibattito,  che nell’arco di un decennio a far data dal 1968 avrebbe portato la Corte Costituzionale a ribaltare le proprie iniziali convinzioni e il legislatore a mettere mano  alle grandi riforme, con l’introduzione del divorzio (1970) ,del nuovo diritto di famiglia (1975) e più tardi con la legge sull’IVG (n.194 del 1978).

Sarà proprio lo jus vivens,  la giurisprudenza  ad offrire una rilettura in chiave interdisciplinare,  e una nuova interpretazione sulla base delle esigenze manifestate dal corpo sociale, di cui si legge vasta eco sulla stampa dell’epoca. Numerose le pronunce di merito, secondo cui il marito avrebbe avuto comunque una maggiore responsabilità, non solo sull’andamento della vita familiare- si leggeva – ma anche sotto quello etico ed affettivo.

Era il momento in cui si faceva valere la protezione, direi un tentativo maldestro dell’uomo- marito di camuffare il controllo discriminatorio per la donna: per cui diveniva necessario  limitare le frequentazioni con l’altro sesso  di affari o di amicizia, anche solo quando fossero state fonti di apparente infedeltà coniugale [3]e ciò per tutelare la dignità e l’onore  dell’uomo /marito, in modo da evitargli (ex multis in Cass.11.6.1970 n.1225 e Cass.1972 n.3135),  di assumere le sembianze di consorte tradito. **I settori che in questi anni  possono rappresentare un importante momento di passaggio per la donna dalla protezione alla presa di consapevolezza sono quelli della scelta tra casa e lavoro,  in cui l’attività fuori delle mura domestiche viene  definita una sorta di “liberazione” del marito .

Sin dall’inizio la  casa è intesa come  esigenza di stabilità  (non ancora come habitat familiare o residenza emotiva) e l’ attività lavorativa consente nel confronto con altre realtà  la scoperta di proprie capacità,  e il cogliere  una indipendenza economica mai avuta. **Sono gli anni che precedono la introduzione della legge sul divorzio, ma soprattutto la legge di riforma del diritto di famiglia in cui  la consapevolezza femminile  passa anche  attraverso i movimenti e le associazioni femminili, che  diventano una parte inscindibile nella costruzione delle idee e della coscienza della persona.

Si segnalano come  anacronistiche quelle  posizioni di” potestà relativa “(FUA’), secondo cui  marito e moglie sono uguali, ma in caso di contrasto prevale la volontà del marito, mentre può essere sintesi efficace affermare che gerarchia e autorità in famiglia sono compatibili con l’eguaglianza a condizione che le posizioni gerarchiche e i relativi poteri derivino da scelte libere di quanti compongono il gruppo familiare[4]. **

Il contesto sociale tra gli anni delle riforme in materia di famiglia  è  però già proiettato in avanti  per il raggiungimento di nuovi e diversi obiettivi: così il rispetto delle scelte autonome degli interessati, la libertà dei singoli, l’intervento dell’ordinamento a difesa del soggetto più debole, sono i punti di riferimento del dibattito sulla convivenza di fatto che iniziava negli anni ‘1970. Allora si cominciavano  a valorizzare più che i vincoli formali, la effettività dell’esperienza di vita, della continuità della relazione affettiva, elementi che hanno determinato un mutamento di atteggiamento nei confronti del fenomeno, oggi giunto a maturazione  con la recente legge Cirinnà 20.05.2016 n.76.

Anche il raggiungimento  della responsabilità della maternità, dopo la legge del 1978 introduttiva dell’I.V.G. segue un lento percorso : infatti i primi esempi indicano una logica solo apparentemente a favore e a sostegno della vita, che dovrebbe valorizzare l’autonomia della persona, ma  che di fatto non passa neanche per un processo di coscientizzazione, o di autodeterminazione della donna non certo della mamma.   Cioè si passa  da un momento totalizzante che è rappresentato dalla logica dell’ esclusione dell’altro , nel decidere se  dare o interrompere la vita, a un coinvolgimento dell’altro che si prova a non fare dettare da prassi, usi o necessità, ma dalla conoscenza di altri rimedi possibili in casi di difficoltà, rispetto alla eliminazione della  persona indifesa, in linea con  una reale protezione del diritto alla vita.

Proprio alla fine di questo percorso un altro momento importante  e’ rappresentato dalla introduzione dall’istituto della adozione , con la  legge n. 184 del 1983  che rimette in discussione le tematiche sull’interesse del minore che partono dalla logica dell’affidamento familiare per confrontarsi oggi con una riforma interna a sé stessa (l. 149/2001), che introduce il diritto del minore ad avere una famigliaindica nell’ascolto accompagnato , nella cura dell’accudimento le principali risorse per dare stabilità ai legami. Una sottolineatura importante riguarda il diritto all’anonimato che rilegge anche in un’ottica comparatistica,  il diritto della madre al segreto nel rapporto con il figlio, in cui cercano bilanciamento interessi che non riguardano più il diritto alla vita, ma l’esigenza di protezione di una scelta cui l’ordinamento ha riconosciuto tutela. Una situazione asimmetrica in cui a volte la rilevanza degli interessi cambia, più ci si allontana temporalmente dal momento in cui la scelta della madre si è compiuta[5].

Oggi  una delle nuove frontiere nel rapporto figlio-genitore, intorno a cui si discute, è rappresentata dal  rapporto fra orientamento sessuale e condizione di genitore, nel quale si va progressivamente verso una neutralizzazione dell’orientamento sessuale, rispetto alla definizione di ruoli genitoriali che è stata determinata dal superamento del monopolio del modello procreativo e cioè del binomio maternità-paternità. L’idoneità degli adottanti in alcuni paesi viene valutata in funzione della idoneità rispetto, mantenimento della prole, e dunque tutelando nell’interesse del minore la scelta di diventare genitori a prescindere nel caso di coppie da identità  o diversità di genere tra le figure genitoriali.

Non meno importante è in questo percorso che vede ormai una continua osmosi fra donna e società è dato  dalla legge 25.07.1998 n. 286 (e successive modifiche): Il testo sull’Immigrazione,  che rimette in discussione la logica dell’appartenenza e  della radicalizzazione in cui i la donna immigrata diviene custode degli usi, dei costumi, delle divinità della sua terra, confermano che  alcuni passi avanti sono stati fatti.  Tra gli altri il  caso in cui una donna nigeriana, richiedeva il riconoscimento dello status di rifugiata e dunque  l’applicazione della Convenzione  di Instanbul dell’11/05/2011  e dell’art 7 del D.lgs n.251 del 2007. La richiedente ha dedotto di essere stata costretta ad abbandonare il proprio Paese d’origine in quanto,  professante la religione cristiana, in seguito alla morte del marito, si era rifiutata di sottoporsi alle pratiche funebri tradizionali imposte alle vedove  di unirsi in matrimonio con il cognato (fratello del defunto) secondo il diritto consuetudinario locale.

In conseguenza del rifiuto, J.O.S. veniva allontanata dalla sua abitazione, privata della potestà genitoriale sui figli, spogliata dalle sue proprietà e perseguitata dal cognato, il quale reclamava il suo diritto ad averla in sposa.  La Suprema Corte ha ritenuto  che Non c’è dubbio.. che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (ovvero in quanto donna), nella forma di “atti specificatamente diretti contro un genere sessuale[6] e dunque le ha riconosciuto lo status di rifugiata.

Il rapporto fra società  e diritto di famiglia, attraverso la dimensione dell’ascolto, della vicinanza, della comunicazione con altre agenzie educative, alla ricerca di dare una risposta ai principali quesiti tenendo conto della peculiarità al femminile, si  è arricchito e  completato in una sorta di continuo progresso. La funzione del diritto, inteso come scienza pratica nella teoria e nella attuazione concreta, allora continua a  richiedere  l’utilizzo della fantasia da parte del  giurista positivo che se ne avvale di continuo.[7] Nell’importante compito che la fantasia svolge il giurista  adegua alcune costruzioni, certe idee e schemi tradizionali (che tenderebbero alla conservazione ), ai mutamenti e alle trasformazioni sociali. E’ evidente che una volta individuati gli obiettivi, si procede nella ricerca di mezzi , modelli, piani di sviluppo e nel coordinamento con i fini da raggiungere ,  in cui l’operatore del diritto ha ampio spazio e a differenza del sociologo o dell’economista sceglie mezzi univoci prevede ipotesi di competenze e di reali tutele, dando la preferenza a ciò che meglio risponde alle esigenze pratiche. Non possiamo chiedere al legislatore più di quello che ha già fatto, né alla norma di essere flessibile. Possiamo però provare ad immaginare linee di ricadute sullo stato sociale, percorsi  per  fare chiarezza, per ricordare che   consapevolezza è dunque coscienza della propria dignità ,è coraggio, è un libero parlare che sia denunzia e costruzione, è voglia di andare avanti malgrado i seri ostacoli e le false promesse di un mondo che sta crescendo, che deve ancora imparare a parlare, a comprendere che la fragilità  non è debolezza ma è caparbietà, necessità e opportunità  di essere consultate dall’altro, prima di prendere decisioni importanti, perché come ricorda  papa Francesco, la visione femminile completa lo sguardo sulla realtà e sui suoi problemi”.

Prof.ssa Francesca Panuccio

 

[1] Quadri  ,La civilistica italiana dagli anni’50 ad oggi, Padova, 1991.

[2]NICOLO’, il codice civile……, 245

[3] Cass. 9.11.1971.

[4] A. FALZEA,

[5] Cfr. Cass. 21.07.2016 n15024.

[6] Cassazione civile, sez. I, 24/11/2017.

[7] V.PANUCCIO, La fantasia nel diritto, Giuffrè, 1984, 127 ss.