Nel nostro agire comune raramente ci rendiamo conto che le relazioni che instauriamo sono spesso conflittuali. E siamo ancora meno consapevoli che il conflitto non è patologia, bensì fisiologia della relazione. È semplicemente un dato di fatto che non va demonizzato bensì gestito in modo ottimale. Le stesse prassi e gli strumenti per la gestione dei conflitti sono ormai acquisiti ed applicati in diversi ambiti e su molteplici scale.
E dell’«esplorazione dei conflitti come pratica di partecipazione nelle organizzazioni» si è occupata Tiziana Tarsia – sociologa dell’Università di Messina – durante un incontro all’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza”. Premesso che il conflitto è una realtà, e che bisogna apprendere come “starci dentro”, la Tarsia ha analizzato gli stili relazionali e conflittuali che si possono assumere.
Il primo stile è quello dell’avvitamento che consiste nell’atteggiamento di chi vuole schivare il conflitto e le situazioni potenzialmente conflittuali. Ma il rischio è di limitarsi nella conoscenza dell’altro, perché temendo di arrivare ad uno scontro si evita persino di entrare in relazione. Il secondo stile è quello aggressivo, che si assume quando si è sicuri di ciò che si vuole, si presume di sapere qual è la strada giusta, la si comunica e la si impone all’altro in modo deciso. Lo stile passivo, al contrario, prevede una sorta di attesa inattiva, uno stare nel conflitto tipico di colui che aspetta, immobile. Infine, lo stile compromissorio è proprio di chi dice ciò che pensa, ma ascolta anche il suo interlocutore, arrivando a negoziare un compromesso che però soddisfa entrambi solo a metà, perché ciascuno deve rinunciare a una parte dei propri interessi.
Tutti questi stili, ha sottolineato la Tarsia, si basano su due categorie: l’assertività e la cooperazione. L’assertività indica la capacità di autodeterminarsi, di dire all’altro chi siamo e cosa vogliamo, in modo chiaro, così che anche l’interlocutore ne sia consapevole. La cooperazione, invece, è la capacità di ascoltare fino in fondo gli altri per poi lavorare insieme, in modo da essere il più possibile generativi e creativi. Queste due categorie, in base al modo in cui si combinano, possono dare vita ai diversi stili analizzati. Se l’assertività e la cooperazione fossero, per ipotesi, entrambi pari a zero, allora lo stile sarebbe passivo, perché almeno un soggetto della relazione non parteciperebbe e delegherebbe agli altri la decisione credendo che essi abbiano maggiore esperienza o competenza. Ma in questo caso, la creatività verrebbe meno, perché mancherebbe l’impegno e il contributo della parte che ha deciso di restare passiva, e non si risolverebbe nemmeno il problema. Non dando il proprio apporto, non dicendo cosa si pensa e cosa si vuole fare, si finisce per limitare anche gli altri. In sostanza, quando non diciamo la nostra e ci tiriamo indietro, siamo responsabili delle conseguenze di questo atteggiamento. Che non va confuso con la volontà di prendersi una pausa per ascoltare, per riflettere e valutare; sebbene questa pausa dovrebbe essere comunicata all’altro, altrimenti il silenzio verrebbe inteso come disinteresse e come una delega.
Se invece in una situazione conflittuale, l’assertività fosse eccessiva o concentrata in una persona, allora lo stile di comunicazione sarebbe aggressivo e si ridurrebbe la cooperazione, limitando le capacità generative di un gruppo. Quando l’assertività e la cooperazione fossero massime, allora si avrebbe uno stile nonviolento di esplorazione e di conduzione del conflitto. Ma cosa comporterebbe e quale vantaggio si avrebbe da una gestione nonviolenta?
Chi acquisisce gli strumenti per stare nei conflitti – ha affermato la Tarsia – è una persona che ha chiaro ciò che vuole, riesce a comunicarlo, e non pensa che la sua idea sia l’unica possibile, ma piuttosto la mette a disposizione dell’altro. Se ci allenassimo a conseguire i mezzi adatti a governare i conflitti, ciò ci aiuterebbe a stare in modo diverso nella relazione e nelle situazioni controverse. E ci sono tante esperienze di gestioni non violente dei conflitti, anche di persone comuni che sono riuscite in questo proposito. L’importante è capire che la nonviolenza non è buonismo, né semplice desiderio di stare e lavorare con gli altri. Essa invece è strategia, è capacità di comprendere l’altro, di dare valore all’avversario, e farsi riconoscere come suo interlocutore.
In tal modo si scenderà su un terreno di equivalenza e si potrà trovare una soluzione che soddisfi entrambe le parti in causa. Uno stile nonviolento significa, infine, cooperare con l’altro, non tirarsi indietro, perché anche solo una parola o un consiglio sono sempre generativi.
Vittoria Modafferi