“Forme di partecipazione. Dalle leggi nazionali allo Statuto Comunale”

L’Italia, si sa, è il paese dei tanti campanili e dei molti Comuni. Piccoli, a volte così piccoli da essere chiamati “Comuni polvere”. La presenza di enti territoriali autonomi, la maggioranza dei quali è di dimensioni ridotte, ha certamente caratterizzato la storia del nostro ordinamento. L’evoluzione delle leggi amministrative che, dall’Unità d’Italia in poi, hanno scandito la vita degli enti locali, è stata esposta ai corsisti dell’Istituto di formazione politica “Mons. Lanza” da Francesco Manganaro – docente di diritto amministrativo all’Università Mediterranea.

A ridosso dell’Unità – ha spiegato il docente – ci fu un intenso dibattito sull’opportunità di lasciare agli ex Stati preunitari una certa autonomia o se fosse invece più conveniente creare uno Stato accentrato. Prevalse quest’ultima ipotesi, a discapito dell’idea federalista che prevedeva di unificare al centro solo alcune funzioni ritenute di interesse nazionale. Così nel 1865 fu varata la legge n°2248 che conteneva le leggi amministrative dell’unificazione. In realtà – ha precisato Manganaro – si estendeva a tutto il Regno la legislazione piemontese, ovvero il sistema fortemente accentrato di derivazione napoleonica. Si trattava di una organizzazione amministrativa che aveva il suo perno nei ministeri, a capo dei quali i ministri svolgevano funzioni gerarchiche, ovvero comandavano su tutto il territorio nazionale attraverso degli organi decentrati. La novità più importante, tuttavia, fu l’introduzione del Prefetto, rappresentante del governo centrale nella provincia, che esercitava poteri gerarchici su tutti gli uffici decentrati del governo. Inoltre il suo controllo si estendeva a Comuni e province, potendone annullare anche gli atti. Il sistema così creato, oltre ad essere verticistico e molto rigido, faceva cessare di fatto l’autonomia degli enti locali. Da un punto di vista legislativo l’accentramento fu decretato dalla teoria della gerarchia delle fonti. Questo sistema prevedeva che la legge nazionale, emanata dal parlamento, prevalesse sempre sui regolamenti dei comuni e delle province. Lo Stato centrale prevaleva cioè sugli enti locali perché le loro fonti giuridiche erano sottoposte all’autorità della legge. In un sistema siffatto è chiaro che l’autonomia degli enti locali era inesistente. Ma la situazione cambiò con la proclamazione e la nascita della Repubblica.

La Costituzione, infatti, all’articolo 5 afferma il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali, ovvero la preesistenza di comuni e province di cui vuole favorire l’autonomia. Per dare attuazione a ciò, negli articoli 118 e 128, ora modificati, si stabiliva che era necessaria una legge statale di principi che regolamentasse le funzioni degli enti locali. Una legge nazionale uguale per tutto il territorio ma di soli principi, che non fissasse puntualmente le regole bensì i criteri generali, lasciando agli enti locali un ambito di normazione e di organizzazione autonomi. La legge di attuazione venne varata solo nel 1990: si tratta della n°142, considerata la pietra miliare delle autonomie locali. Essa consentiva l’emanazione degli statuti comunali e provinciali e perciò incideva sul profilo dell’autonomia normativa. Dal punto di vista della gerarchia delle fonti, lo statuto prevaleva sui regolamenti, che dovevano essere conformi ad esso, però era al tempo stesso sottoposto alla legge. Dunque si intervenne con la separazione delle fonti: il legislatore cioè attribuiva agli enti locali degli ambiti di competenza, delle materie su cui Comuni e province hanno autonomia normativa. Una volta attribuito l’ambito di competenza normativa agli enti locali, essi possono regolamentarlo come credono, non trovando nella legge nazionale una regola precisa. La legge n°142 concedeva inoltre una autonomia organizzativa agli enti territoriali, che possono organizzarsi senza doversi attenere a una legge nazionale uguale per tutti. Una volta avviato il percorso autonomistico con la legge 142, per tutti gli anni 90 e nel decennio successivo procedette a grandi passi. Un fatto sicuramente rilevante, in tale direzione,  è stato l’abolizione del controllo dello Stato sulle Regioni, e delle Regioni sugli atti degli enti locali, controllo che frenava e sacrificava l’autonomia di Comuni e province.

Mancava ancora però una reale autonomia finanziaria, cioè la capacità degli enti locali di imporre una fiscalità locale. E nel 2009 la legge delega n°42, impropriamente chiamata legge sul federalismo fiscale, va verso questa direzione. Ma sancisce anche l’affermazione del principio di autonomia portato alle conseguenze estreme, che tende alla disgregazione dello Stato nazionale. Tra i dieci decreti di attuazione del federalismo fiscale, il più importante è quello sui costi standard, che afferma che le funzioni a Comuni e province si pagheranno secondo costi standard uguali per tutti e non più in base alla spesa storica. Tuttavia nel 2011 il processo di autonomia finanziaria che doveva aver luogo attraverso la legge n°42 si blocca. La crisi finanziaria esplode e c’è una inversione di tendenza netta: una serie di disposizioni normative riaccentrano la spesa e impediscono la realizzazione del federalismo fiscale. Tanto che oggi non si parla più di questo argomento, perché con l’accentramento della spesa si riduce l’autonomia degli enti locali attraverso la diminuzione delle risorse.

Oggi, dunque, una certa autonomia territoriale – benché tuteli idealmente le collettività territoriali e sia quindi da sostenere – diventa insostenibile per la spesa pubblica, al punto da far venire meno lo stesso concetto di autonomia. D’altra parte, il desiderio di difendere l’autonomia fino all’estremo – ovvero la presunzione dei comuni di voler fare da soli – comporta la fine della stessa autonomia, perché i Comuni rischiano il dissesto, che in sostanza significa essere sottoposti ad un regime di controllo esterno.

Vittoria Modafferi