Le frontiere del welfare: i servizi per i “non cittadini” (I)

Non sempre la realtà delle cose è come sembra. Anzi, il più delle volte la prima percezione è ingannevole. E solo con una ricerca più attenta, fatta di osservazione e di ascolto, si può scorgere la verità. Ciò vale sia nel processo di comprensione della realtà che nella conoscenza delle persone. Nella relazione con l’altro, infatti, è sempre più necessario andare oltre i nostri modi di vedere, di pensare, di giudicare, per aprirsi alle prospettive che si nascondono sotto la superficie. Questi argomenti sono stati il fil rouge della lezione tenuta alla scuola di formazione politica “Mons. Lanza” dalla prof.ssa Tiziana Tarsia – Università di Messina.

La conversazione si è avvalsa della proiezione in aula di “illusioni ottiche” usate come strumento di riflessione e come metafora del processo conoscitivo della realtà e del prossimo. Riuscire a vedere l’immagine nascosta – a prima vista sfuggente e poco riconoscibile – dietro un’altra ben più nitida, è stato un utile esercizio proposto ai corsisti per richiamarli ad alcune considerazioni. La prima è che non tutti abbiamo la stessa percezione della realtà, che, in quanto costruzione sociale, non è vista e vissuta da tutti allo stesso modo. Ognuno di noi – ha chiarito la docente – si forma un’idea del mondo e degli altri in base alle proprie esperienze. Il nostro modo di vedere o di ragionare non è valido in assoluto. Eppure spesso pretendiamo che gli altri condividano il nostro agire e ne capiscano le motivazioni. Invece non sempre è così. Infatti, capita almeno una volta nella vita di sentirsi “diversi” a causa di scelte che gli altri non approvano. E questo accade, appunto, perché la percezione della realtà varia da persona a persona.

Ma cosa succede, allora, se chi ci sta accanto assume un comportamento che noi non riteniamo giusto o non condividiamo? L’ipotesi più probabile è che si apra un conflitto. Che può sfociare nella rottura definitiva o può indurci a riflettere. Tuttavia, riuscire a entrare in relazione con l’altro e capire perché agisce in un determinato modo e non come vorremmo, è un’operazione difficile, che richiede la consapevolezza di se stessi. Il non essere consapevoli di sé, infatti, limita nella comprensione delle azioni degli altri, e ci fa sentire insicuri. Oggi c’è tanta diffidenza e l’insicurezza è diventata la malattia della nostra società. Si ha paura che l’altro ci metta a tal punto in discussione da non sapere più chi siamo. Per questo è fondamentale che ognuno si conosca veramente bene, per potere poi instaurare un rapporto “empatico” con l’altro. Al contrario del rapporto “simpatetico” (che si allaccia con le persone che ci sembrano più simili, in cui ci riconosciamo e con le quali abbiamo qualcosa da condividere), la relazione “empatica” presuppone consapevolezza di sé e capacità creativa.

Con l’ultima espressione – ha spiegato ancora la Tarsia – intendiamo dire che ci si deve accorgere che la realtà è talmente complessa che non possiamo capirla subito. E non possiamo nemmeno avere la soluzione immediata del problema, senza ascoltare le persone e avviare una ricerca. Ricerca e ascolto che potranno anche confermare la nostra impressione, ma che sono imprescindibili per arrivare alla verità delle cose. Ognuno dovrebbe esercitarsi ad essere una persona creativa, cioè vedere un evento nella sua complessità, da prospettive diverse e cogliendo l’essenziale. Solo così alla fine si acquisirà una mentalità “interculturale” ovvero una sensibilità fatta di ascolto e di osservazione. Due discipline in cui non eccelliamo perché manchiamo di esercizio. Nella conoscenza dell’altro, invece, bisognerebbe essere persone creative: occorre, cioè, non dare le cose per scontate e non pretendere che gli altri la pensino o agiscano come noi.

La relazione, allora, è la chiave di lettura che ci permette di capire anche chi non è immediatamente comprensibile secondo i nostri parametri. Come lo straniero. A tal proposito – ha sottolineato la Tarsia – il sociologo tedesco Simmel ha offerto una immagine chiara. Lo straniero – secondo lo studioso – è colui che è inserito nella comunità e vi appartiene, non è semplicemente di passaggio. Nonostante il sociologo offrisse un’accezione positiva, percepiva che la comunità tende generalmente a instaurare con lo straniero un rapporto di ambivalenza. Composto da un moto di avvicinamento, dovuto alla comune appartenenza alla stessa umanità. E da una tendenza all’allontanamento, a causa delle tante differenze che percepiamo ma non capiamo. Ecco allora che sarebbe indispensabile allacciare una relazione autentica ed “empatica” per comprendere a fondo ciò che immediatamente ci sfugge. Ma queste relazioni costruttive sono faticose, comportano sforzo e impegno.

La curiosità e il desiderio di capire – andando oltre certi stereotipi e oltre i nostri ristretti orizzonti – possono essere un buon punto di partenza. Ogni uomo, infatti, ha l’esigenza di stare con gli altri, perché dal rapporto e dal confronto con l’altro l’uomo si riconosce persona e costruisce la propria identità.

 

Vittoria Modafferi