Nonviolenza e pedagogia della liberazione. Ovvero in cosa consiste e quali forme può assumere la nonviolenza. E ancora: chi sono stati i più lucidi pensatori, quale prassi e quale concetto di educazione nonviolenta hanno proposto. Di queste tematiche si è discusso e ci si è confrontati durante il laboratorio di partecipazione sociale, promosso dall’Istituto per lo studio delle problematiche educative “Giuseppe Lazzati” e dall’Arcidiocesi di Reggio – Bova, con la collaborazione dell’Istituto superiore di formazione politico-sociale e dell’Istituto superiore di scienze religiose.
L’incontro seminariale di novembre è stato guidato da Antonio Vigilante – docente di scienze umane nei licei e collaboratore dell’Università di Bari – e coordinato da Tiziana Tarsia – sociologa dell’Università di Messina – e Vincenzo Schirripa – docente di storia contemporanea, Università di Messina.
Nella prima parte del seminario gli iscritti al laboratorio insieme ai corsisti dell’Istituto “Mons. Lanza” hanno formato tre gruppi di lavoro per definire rispettivamente cos’è la violenza, qual è il suo opposto e attraverso quali forme si può esprimere. Partendo dalle risonanze dei gruppi, il prof. Vigilante ha indicato chiaramente la violenza come un atto o un comportamento volto a trattare una persona come cosa. «Violenza è privare l’altro della dignità, è pietrificarlo, trattarlo come un oggetto. Di contro, la nonviolenza è rispetto per tutti gli esseri viventi, è considerare le cose come fossero persone, con il giusto buon senso che vigila sul rischio di cadere nell’idolatria». La violenza – ha precisato Vigilante – può essere considerata come una degenerazione della forza che in sé non è negativa. Infatti nelle relazioni interpersonali un rapporto di forza è simmetrico, perché i soggetti sono sullo stesso piano e crescono insieme, ognuno contribuisce a far diventare l’altro sempre più persona. Il rapporto violento, invece, è asimmetrico poiché una persona si pone in una posizione di superiorità, sminuisce l’altro e non lo riconosce. Quanto alle forme che può assumere la violenza, oltre a quella fisica, psichica e culturale – che cerca di imporre la propria visione del mondo – esiste una violenza strutturale in cui tutto un sistema esercita violenza su alcuni soggetti, le cui rivendicazioni sono subito stroncate e le cui sorti sono indifferenti alle istituzioni e alla politica. La nonviolenza, dunque, è ricerca di una soluzione nonviolenta dei conflitti che sia capace di accontentare le parti; ma è anche una ideologia che cerca un sistema politico-economico giusto, in cui tutte le persone siano riconosciute come tali; mentre sul piano culturale è una visione del mondo aperta che non comporti guerre di religione.
Il prof. Vigilante ha poi parlato di Gandhi, uno dei testimoni più noti della nonviolenza, sottolineando alcuni aspetti della sua filosofia. Per Gandhi – ha precisato il docente – è fondamentale credere in Dio per essere nonviolenti. Ingaggiare una lotta nonviolenta contro un nemico agguerrito e dotato di un esercito, sarebbe da folli. Ma combattere per difendere i propri diritti senza usare la violenza è possibile e auspicabile se si crede in Dio, perché Dio è buono ed è giusto, e non permetterà che il giusto venga sconfitto. Chi fa una battaglia giusta e combatte per una causa santa in modo nonviolento, ha la certezza che Dio accorrerà in suo aiuto. A fondamento della filosofia di Gandhi, quindi, sta l’assunto che Dio interviene nella storia attraverso alcuni uomini che hanno la capacità di fare prevalere il bene, per soccorrere i giusti e garantire il successo di una causa nonviolenta. Se Gandhi fu un autentico cultore della nonviolenza e la praticò in modo esemplare – ha ancora precisato Vigilante – Aldo Capitini fu il pensatore più lucido, il filosofo più sistematico. La sua riflessione parte dall’esperienza personale dell’esclusione – Capitini visse la condizione della fragilità fisica e della malattia in un’epoca, quella fascista, che esaltava il vigore e la forza – che gli fa cercare una visione del mondo in cui gli esclusi siano inclusi e portati al centro del sistema politico. Anche se il mondo è complesso e noi siamo dei puntini – afferma Capitini – dobbiamo “farci centro”, sentire la nostra responsabilità verso tutto ciò che esiste, vivere come se da noi partissero decisioni che possono cambiare il mondo. Per bilanciare questo atto, che potrebbe portare al narcisismo, è necessario aprirsi all’altro e amarlo infinitamente. In questo atto si “realizza Dio”, che non è creatore o ente astratto, bensì amore tra due esseri che si amano. La politica che nasce da una tale visione del mondo è quella del potere di tutti, cioè una politica inclusiva che dà a tutti il potere. Ricordiamo che Capitini è stato il promotore dei centri di orientamento sociale – nati nel secondo dopoguerra – vere e proprie assemblee popolari in cui gli amministratori rendevano conto del loro operato. In questo modo si esercitava il controllo del potere, che è un primo passo per l’instaurazione del potere di tutti.
Particolarmente interessante – ha concluso il prof. Vigilante – è la visione pedagogica di Capitini, che si può annoverare tra le forme di educazione nonviolenta. Secondo il filosofo perugino, i due soggetti del rapporto educativo stanno in una dimensione molto diversa: i bambini appartengono a una realtà liberata, in cui non c’è la conoscenza della malattia e della morte, mentre l’adulto vive nel mondo della storia, nella realtà così com’è. Quindi l’educazione tradizionale è violenta, perché l’adulto porta il bambino nella realtà normalizzata, gli insegna l’esistenza della morte e della malattia. Invece un’educazione nonviolenta accetta profondamente la diversità del bambino, rispetta la sua affettuosità che si esprime dando del “tu” a tutti. In questa nuova pedagogia la relazione è simmetrica, perché l’educatore impara dal bambino una nuova visione del mondo, impara ad aprirsi a una realtà diversa, e a sua volta gli consegna un lascito di esperienza storica e di valori, che sono quanto di meglio ha mai realizzato l’uomo nella storia.
Vittoria Modafferi