Le Pubbliche Amministrazioni in Italia: un affresco generale

      Il 16/11/2017 – nel corso delle lezioni dell’ISFPS Mons. A. Lanza incentrate sul tema “Sud: restare o andarsene?” – il Prof. Francesco Manganaro, Ordinario di Diritto Amministrativo presso l’Università Mediterranea, ha discusso di “Vecchi e nuovi modelli di pubblica amministrazione in Italia”.

Il docente ha ripercorso l’iter delle riforme più recenti che hanno riguardato le PP.AA., dalla legge sul procedimento amministrativo n. 241/90 alla “Riforma Madia” ancora in via di attuazione. Storicamente il parametro dell’efficienza non aveva rilevanza per la produzione di un atto amministrativo, poiché era sufficiente che questo risultasse corretto in base ai parametri legislativi, che fosse cioè legale. La l. n. 241/1990 ha introdotto anche la valutazione dei criteri di economicità ed efficienza e da allora ha assunto rilievo anche il tempo di conclusione di un procedimento. Il D. Lgs. N. 150/1999 ha regolamentato le valutazioni dell’attività del personale PP.AA. e il ciclo di gestione della perfomance, ma tuttavia – a causa della scarsità di risorse economiche – non ha avuto in concreto molto seguito. Infine, la l. n. 124/2015 (c.d. Riforma Madia), ha previsto diversi decreti legislativi per avviare un complessivo riordino delle PP.AA. e introdurre misure di semplificazione normativa.

Considerando anche gli enti locali, le PP.AA. in Italia quantitativamente sono oltre diecimila: si tratta di un enorme agglomerato di istituzioni pubbliche di diversa natura (enti centrali di livello costituzionale, enti di produzione di servizi, istituti di ricerca, ecc.) e con varie funzioni. Misurarne l’efficienza, anche per questa diversità, è un fattore difficile e complesso. Si possono misurare, ad esempio, i LEA (livelli essenziali di assistenza), ma la valutazione della ricerca universitaria è ben più difficile.

Il relatore si è soffermato in particolare sul riordino delle società partecipate, necessario poiché, soprattutto al Sud Italia, sono state utilizzate per creare un sistema di assunzioni clientelari, favorendo la corruzione, ma anche come “ammortizzatore sociale”, e sono fallite per le eccessive assunzioni e la spesa pubblica incontrollata. Non è un caso che uno dei Rapporti Svimez sull’economia del Mezzogiorno abbia segnalato, come causa del limite alla crescita, il rapporto di sudditanza del dirigente pubblico meridionale al potere politico. L’impiego nelle PP.AA. continua ad essere una delle principali fonti di reddito al Sud e alcuni studiosi, come S. Cassese e L. Torchia, hanno rilevato come, dall’Unità d’Italia, tutta la P.A. nazionale si sia “meridionalizzata”.

Tutti gli indicatori di efficienza dei servizi pubblici, secondo i dati Svimez, sono negativi al Sud. Inoltre, gli investimenti nelle zone depresse del nostro Paese non hanno contribuito a sanare le disparità come invece è avvenuto in altre Nazioni Europee (Germania, Spagna, Portogallo e Paesi dell’Est).

In conclusione, si è riflettuto sulle spinte motivazionali per restare al Sud, che spesso prescindono dai meri dati economici, impegnandosi per migliorare la qualità dei servizi pubblici.

Stefania Giordano