La politica per Hannah Arendt – la politica pura, autentica – sfida, quando emerge come eccezione inattesa e imprevedibile di libertà e pensiero, il piano di immanenza di una ontologia rassegnata alle dinamiche e alla corrente di un “essere” indecifrabile e vissuto come destino.
Si contrappone, in tal senso, agli sviluppi di un politico – termine neutro ma non neutrale – inteso come conflitto perenne, come origine ostile e fine tragica di una contrapposizione – quella amico/nemico – indirizzata ad avere “naturalmente” la prima e l’ultima parola nell’agone pubblico.
La politica, invece, intesa propriamente dalla Arendt come nuovo inizio autonomo, è un progetto che supera il conflitto, è un diritto che lo giuridifica, un pensiero resistente che, interrompendo lo scorrimento ordinario/biologico – la banalità del male -, tenta di fissare, sempre provvisoriamente, i tratti durevoli di una istituzione, di una forma organizzata nella libertà e non (s)fondata sulla violenza, magari sulla violenza sovrana.
Paul Ricoeur, interprete della filosofa tedesca nel celebre saggio Hannah Arendt, riedito dalla Morcelliana nel 2017, così si esprime: «[…] la politica in quanto tale, è, al di qua della sua perversione totalitaria, un progetto di lunga durata.
Tanto per Hannah Arendt i fenomeni economico sociali sono segnati dal cambiamento e dalla variabilità, quanto la politica presenta caratteri per così dire transistorici, che permettono, ad esempio, ai lettori moderni di riconoscere – nel senso forte di reidentificare – in concetti come potere, sovranità, violenza, delle costanti dell’impresa di stabilizzazione della vita in comune degli esseri mortali».
La violenza sovrana, che può giungere al suo acme con la perversione totalitaria, dunque, non può essere la fatalità esatta della politica e della politica;
per Arendt, infatti, si impone l’esigenza di un ripensamento che è, in ultima istanza, una critica radicale al pensiero politico della modernità occidentale.
Così, di nuovo, Ricoeur: «La dominazione, per Hannah Arendt, è un’interpretazione falsificata e falsificante del potere, inteso come potere di obbligazione, come potere dell’uomo sull’uomo. La Arendt, quindi, trae il proprio concetto di potere da un’intensa polemica con la quasi totalità del pensiero politico».
Per la filosofa tedesca, quindi, il potere è altra cosa dalla dominazione, si sottrae al legame stringente tra protezione ed obbedienza, declinato come violenza legittima.
Per Arendt il potere riposa necessariamente sul consenso degli attori politici, sulla libertà di cittadini impegnati in un mondo comune, altrimenti, appunto, meglio parlare di coercizione che, come tale, non è una categoria della politica ma strumento di moltiplicazione della forza naturale, essenza neutra e disumana, potere di asservimento dell’unico o del gruppo.
La pensatrice ebrea, quindi, dicevamo, rompe con la quasi totalità della filosofia politica moderna, inaugurata da T. Hobbes nel contesto dell’affermazione dello Stato-Nazione, e con una precisa definizione di Stato, declinata da ultimo da M. Weber, nel suo saggio La politica come professione, edito da Einaudi nel 1976: «Lo Stato […] consiste in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della violenza legittima (vale a dire considerata legittima)».
Infrangendo lo schema della dominazione, del comando e dell’obbedienza, la Arendt riafferma così l’operatività storica eccezionale di apparizioni politiche frammentate, prive dell’aculeo della violenza.
Non solo l’isonomia di Pericle o la civitas romana con la sua auctoritas in senatu, ma anche l’epifania moderna dell’irruzione di un potere popolare (quindi plurale e autonomo) irriducibile al domino e incline alla libertà: la rivoluzione americana, i consigli operai, i primi soviet, l’insurrezione di Budapest, la Primavera di Praga, le esperienze di lotta non violenta per l’affermazione dei diritti, la disobbedienza civile.
Come è chiaro, non si tratta solo, per la filosofa, di collezionare esperienze storiche disparate, differenti e evidentemente contraddittorie, ma di evidenziare una tradizione diversa, una possibilità altra, un progetto politico radicale sempre pensabile e realizzabile, per quanto inatteso statisticamente.
Ricoeur, ancora, così si esprime: «Qui si vede il lavoro del pensiero della Arendt: consiste nell’esplicitare una aspirazione implicita che, in qualche momento storico privilegiato, ha aperto un varco, interrompendo la tradizione della dominazione […] la Arendt suggerisce che noi abbiamo la nozione di regole che sarebbero direttive senza essere coercitive».
Il pensiero della Arendt, quindi, allo stesso tempo, richiama alla luce come evento e riconosce spiritualmente, senza precise garanzie storiche di ripetitività però, un retaggio differente, la costituzione del potere umano sul consenso tra uguali che rigenera la convivenza pacifica.
Si tratta dell’elaborazione di tracce – di tracce di trascendenza e assenza – e della segnalazione di irregolarità e di epifanie anomale che non possono essere intese, però, come passato, come riconoscimento diretto di una legittimità sicura.
L’affermazione del potere/azione/libertà/consenso contro la falsità extra politica della violenza si rende presente come trascendimento di senso, come uno sconosciuto inaspettato che, nonostante tutto, può essere pensato e che si realizza.
Non è ontologia politica, non è metafisica ideologica: è il movimento del pensiero (e dell’azione) che tutela regole non repressive e che offre un modello, una via d’uscita alla dominazione, senza l’appiglio di un memoriale e con l’aggancio – virtuale – ad una coazione d’ordine che promana da una dimensione metastorica senza ricordo, perché davvero senza passato.
E’, da sempre, speranza nuova, nuovo cominciamento, condizione umana, futuro, spes contra spem.
Ricoeur, così precisa questo approccio: «la costituzione del potere in una pluralità umana – costituzione pregiuridica per eccellenza, quindi precontrattuale, costituzione che fa emergere come evento il consenso a convivere dalla discussione delle opinioni -, questa costituzione ha lo statuto dell’obliato.
Ma questo oblio, inerente alla costituzione del consenso che istituisce il potere, non rinvia ad alcun passato vissuto come presente nella trasparenza di una società cosciente di se stessa e della sua generazione plurale. […] un oblio che non è passato.
In questo senso, un oblio che non è nostalgia […] il potere è, nel medesimo tempo, la verità più prossima, costitutiva di ogni istante del convivere attuale, e la più dissimulata – e in questo senso sempre obliata».
L’accento, per l’Arendt impegnata nella riflessione politica, è dunque posto sulla fragilità delle cose umane, sull’oblio, sulla debolezza delle soluzioni messe in forma, sulla facilità e banalità dell’opzione violenta, sempre emergente come baratro e male.
Il flusso storico, come quello naturale, possiede delle caratteristiche ontologiche ferree: ciò che è fatto non può essere disfatto mentre il futuro è condizionato da un automatismo statistico, nel quale, ovviamente, ciò che è prevedibile non è di certo la libertà umana, la capacità di resistenza, ma il concretarsi del negativo, della caducità, della morte, tanto nelle forme naturalistiche di una epidemia virale che in quelle politiche del conflitto militare, interpretato come destino ineluttabile.
Contro tutto questo quali difese può ergere l’eccezione miracolosa della politica altra? Quali forme e categorie può assumere la tradizione carsica che contraddice la corrente ctonia per affermare il mondo?
Per affermare, quindi, lo spazio pubblico del dibattito e dell’azione degli uguali e liberi, responsabili per il futuro?
La Arendt risponde, in più passi della sua opera – e in questo articolo ci siamo specificatamente concentrati sui saggi apparsi tra il 1954 e il 1961, raccolti con il titolo Tra Passato e futuro”, editi nel 2017 da Garzanti – che sono il potere di promettere e il potere di perdonare le risposte propriamente umane alle regolarità statistiche del flusso e del dominio.
La promessa reciproca, l’accordo, infatti, incatena ciò che è incerto e che sfugge verso il baratro del conflitto, mentre il perdono scioglie ciò che è legato alla dittatura dei fatti, offrendo l’opportunità politica del nuovo inizio su basi nuove: la ripartenza.
Sono categorie, dunque, sia della vita attiva che di quella contemplativa, veri miracoli che preservano il mondo dalla sua rovina “naturale”.
Miracoli che sfuggono all’accettazione nichilista dell’essere e lascar essere, all’irresponsabilità dell’esilio nel rifiuto dell’impegno e della politica, all’accettazione di un essere per la morte che, in ultima analisi, porta a conseguenze paralizzanti ogni nuova azione, ogni nuovo avvio.
Ed è il nuovo inizio, la natalità, a sfidare davvero la capacità di pensiero e di agire, attraverso la provocazione repentina di ciò che viene al mondo osando l’inosabile.
Così si esprime la Arendt nel saggio Il concetto di storia nell’antichità e oggi:
«E’ questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato tra noi».
Enzo Musolino